mercoledì 29 gennaio 2025

Giustizia a orologeria

 LA RIFORMA O LA VITA : FAR WEST MAGISTRATURA ITALIANA, UNO

SCANDALO INACCETTABILE

La recente notizia dell'indagine a carico della Presidente del Consiglio

Giorgia Meloni, insieme ai ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi e al

sottosegretario Alfredo Mantovano, per favoreggiamento e peculato nel caso

del generale libico Osama Almasri, solleva interrogativi inquietanti sul ruolo e

sulle intenzioni della magistratura italiana.

Questa inchiesta, più che un atto di giustizia, ha tutto il sapore di una

vendetta. Una reazione rabbiosa di un potere che si sente minacciato dalle

riforme e dai cambiamenti promossi dal governo. Sarebbe questo lo "stato di

diritto"? Il sacro graal di cui la sinistra si riempie la bocca solo quando serve a

proteggere i privilegi di una magistratura che sembra credersi intoccabile?

Indipendenza della magistratura? Certo, nessuno la nega. Autonomia dei

giudici ? Ovviamente, è garantita dalla Costituzione. Ma autonomia e

indipendenza non significano onnipotenza, né diritto al protagonismo politico,

né tantomeno licenza di ingaggiare una lotta continua contro chiunque osi

mettere in discussione il loro strapotere.

La magistratura italiana non è santa, e la nostra Costituzione non le

conferisce alcun diritto di immischiarsi nella politica. Nessuno ha mai

attribuito ai giudici il potere di usare indagini e avvisi di garanzia come

strumenti di pressione e ricatto, con metodi che ricordano più da vicino certe

pratiche mafiose che non l’imparzialità e la terzietà di cui i giudici dovrebbero

essere garanti.

È inaccettabile che una casta autoreferenziale di magistrati, intoccabili e

irresponsabili, possa condizionare il corso della democrazia attraverso azioni

di minaccia. Il sistema delle correnti, le logiche da contrada, le manovre

occulte dentro il CSM: tutto ciò è ormai evidente, palese (vedi il caso

Palamara), eppure nessuno sembra avere il coraggio di denunciare la deriva

di un potere assoluto che non risponde a nessuno, non certo al popolo, né al

parlamento, a nessuno!

Il tentativo di riformare la giustizia in Italia è sempre stato ostacolato da una

magistratura accartocciata su se stessa, che vuol essere libera di

“funzionare” lentamente, male, una casta inefficace e ideologicamente

corrotta, pronta a colpire chiunque osi metterla in discussione. Il popolo

italiano esige una riforma della giustizia, tanto profonda quanto decisiva.

Meloni e il suo governo tentano di mettere ordine in questo sistema marcio,

ed ecco che arriva puntuale la rappresaglia sotto forma di inchieste e avvisi di

garanzia.

La politica non può restare ostaggio di questo vespaio di calabroni militanti. È

ora di riaffermare che in una democrazia i poteri devono essere equilibrati e

controllati in maniera da permettere al cittadino di comprenderne l’azione,

azione che deve essere trasparente e mai valicare i limiti imposti dalla

Costituzione. La magistratura deve tornare a fare il proprio lavoro: applicare

la legge, non scriverla, né manipolarla; indagare i reati, non influenzare la

politica. Non sta scritto da nessuna parte che le riforme della magistratura

sono vietate.

Se questo è lo Stato di diritto che certa magistratura e certa sinistra

difendono con tanto fervore (quando fa comodo a loro, almeno), allora è

evidente che c’è bisogno di una profonda revisione del sistema. Perché in

uno Stato veramente democratico la giustizia deve essere al servizio della

legge, a servizio del popolo e non un'arma di lotta politica nelle mani di una

cricca di ambiziosi moralmente corrotti.

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LUCA COSTA

articoli di Luca Costa



lunedì 27 gennaio 2025

Perché Putin piace?

 Perché Putin piace così tanto in Europa? La risposta che nessuno vuole sentire


Viviamo in un'epoca in cui il dibattito pubblico è sequestrato dai "preti della chiesa

catodica", politicamente corretti e moralmente corrotti, per usare un'espressione cara

a Diego Fusaro. I sermoni politicamente corretti si susseguono a ritmo incessante,

tentando di inchiodarci all'immagine caricaturale del "filo-putiniano da divano",

descritto come un fascista nostalgico o un visionario fuori dal tempo. Ma forse è ora

di abbandonare questa narrativa prefabbricata e provare a rispondere a una domanda

scomoda: perché Putin piace così tanto in Europa?

La risposta non è né banale né comoda. Piace perché governa per i russi. Vladimir

Putin è russo ed è eletto dai russi. E, soprattutto, fa gli interessi dei russi. Un concetto

che in Europa suona ormai come un’eresia, dato che i nostri governi da decenni

sembrano fare tutto fuorché tutelare i propri cittadini. Invece di occuparsi di noi, ci

massacrano con tasse, imposte, multe e austerità, mentre si piegano all’ideologia del

giorno: un giorno l’ecologismo esasperato, un altro l’immigrazionismo, poi il Covid,

poi il green pass… Ma chi si occupa più di noi europei? Diciamo la verità,

guardiamoci negli occhi : chi sarebbe capace di citare una sola legge, una sola

riforma approvata nell’interesse del popolo, per migliorare la vita dei comuni

cittadini, negli ultimi 35 anni? Nessuno. Siamo invece tutti perfettamente coscienti di

quanto si siano degradate le fondamenta del bene comune: sicurezza, sanità, scuola,

lavoro. E quando qualcuno alza un dito per farlo notare, i potenti di turno rispondono

sempre la stessa cosa : non ci sono i soldi. Eppure per le armi a Zelensky, a

Netanyahu i soldi ci sono. Per l’accoglienza dei clandestini, per le pale eoliche che

producono meno energia del criceto che gira nella ruota, i soldi ci sono sempre. E per

il. popolo? Briciole, quando va bene.


Putin e il riscatto della Russia

Per comprendere il "fascino" che Putin esercita su molti europei, dobbiamo guardare

ai suoi 25 anni di governo. Sì, 25 anni: un quarto di secolo in cui, piaccia o no, Putin

ha restituito dignità al suo popolo. All'inizio degli anni ‘90, la Russia era un paese in

ginocchio: il crollo dell’Unione Sovietica aveva devastato l’economia, con milioni di

russi ridotti alla povertà, oligarchi che saccheggiavano le risorse del Paese e un

governo incapace di difendere gli interessi nazionali. Alla fine degli anni 90, dopo

dieci anni di ultra-liberalismo pilotato da Washington nel nome delle idee dei

Chicago Boys, le cose andavano ancora peggio. Putin diventa presidente di una

Russia allo stremo, dove si muore letteralmente di fame e che si appresta a essere

smembrata da colpi di stato made in USA (la Cecenia vi dice qualcosa?).


E cosa ha fatto Putin? Ha preso le redini di un paese allo sbando e lo ha riportato in

piedi. Con risultati che non si possono ignorare:

1. Controllo delle risorse strategiche: Putin ha messo fine alla svendita

selvaggia delle risorse energetiche russe, nazionalizzando in parte o mettendo

sotto controllo statale aziende chiave come Gazprom e Rosneft. Ha costretto

gli oligarchi a piegarsi all’interesse nazionale, facendo capire che in Russia c’è

un padrone: lo Stato, non il capitale privato.

2. Riduzione della povertà: Dai primi anni 2000, il PIL russo è sempre cresciuto

a un ritmo sostenuto, consentendo una drastica riduzione della povertà. Ha

aumentato i salari minimi, introdotto riforme pensionistiche assolutamente

all’avanguardia, aiutato le famiglie, e migliorato le condizioni sociali per

milioni di russi.

3. Rinascita culturale e patriottismo: Putin ha rilanciato l’orgoglio nazionale

russo, investendo nella cultura, nella fede religiosa, nella riscoperta

dell’identità, nello sport e nella difesa della tradizione. Ha promosso una

visione del mondo in cui la Russia non è il “paria” della comunità

internazionale, ma una potenza da rispettare.

4. Politica estera indipendente: Putin non si è mai piegato ai diktat

dell’Occidente. La sua politica estera, spesso criticata, ha comunque avuto un

obiettivo chiaro: difendere gli interessi nazionali russi, dall’Ucraina alla Siria.

Questo non significa santificare Putin, ma riconoscere una realtà che i nostri cari

maîtres à penser occidentali si rifiutano di ammettere: i russi lo amano perché lui

governa per loro.


L’Europa della tecnocrazia contro i popoli

E noi? Noi europei sogniamo un leader che si occupi di noi, perché da decenni siamo

governati da élites che sembrano allergiche al concetto stesso di sovranità e di

interesse nazionale. In Italia, per esempio, abbiamo assistito al trionfo del

tecnocratismo e del servilismo verso Bruxelles: governi che aumentano le tasse,

impongono austerità mostruose e inseguono le mode ideologiche del momento, senza

mai affrontare i veri problemi delle persone.


Un giorno ci dicono che dobbiamo accettare tutto in nome dell’ecologismo: auto

elettriche che non possiamo permetterci, case da ristrutturare a suon di migliaia di

euro per soddisfare regolamenti sempre più stringenti. Un altro giorno ci spiegano

che dobbiamo accogliere chiunque arrivi, senza se e senza ma, mentre le periferie

esplodono di tensioni sociali. Poi è arrivato il Covid, e abbiamo visto leader pronti a

imporre restrizioni draconiane, green pass, lockdown, senza mai preoccuparsi

davvero delle conseguenze sulla vita delle persone.


Putin: simbolo di ciò che ci manca

Ecco perché Putin piace: non perché sia perfetto, non perché sia un santo, ma perché

rappresenta qualcosa che noi abbiamo perso. Un leader che si occupa del suo popolo.

Un leader che non ha paura di dire "no" a interessi esterni se questi danneggiano i

suoi cittadini. Un leader che, piaccia o meno, è il simbolo di una politica nazionale,

mentre noi siamo schiavi di un'Unione Europea che tutela tutto tranne che noi.

Non si tratta di essere filo-putiniani, ma di riflettere sul vuoto di leadership che ci

circonda. Non sogniamo Putin: sogniamo un leader che torni a occuparsi di noi

europei, che abbia il coraggio di dire basta a tasse, ideologie e diktat esterni. Un

leader che restituisca dignità al popolo, come Putin ha fatto – nel bene e nel male –

con i russi.

Forse è questo il peccato originale che nessuno osa confessare, Putin incarna una

visione del potere basata sull’idea di Bene Comune che noi abbiamo ormai gettato

alle ortiche. Ma il popolo ne sente la mancanza.

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LUCA COSTA

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Giornata della Memoria o dell'ipocrisia?

 Giornata della Memoria: l’oscenità di un’ipocrisia collettiva

Il 27 gennaio è stato, come ogni anno, celebrato il Giorno della Memoria, una data simbolica per

ricordare l’orrore dell’Olocausto e il trionfo contro il nazismo. Ma (anche) quest’anno la

celebrazione è stata macchiata da una delle più grottesche e nauseanti dimostrazioni di ipocrisia

politica che la storia recente ricordi: una commemorazione ad Auschwitz senza la Russia. Sì, senza

la Russia, la potenza che non solo ha combattuto con sacrifici indicibili per sconfiggere il nazismo,

ma che ha materialmente liberato Auschwitz il 27 gennaio 1945.

La decisione di escludere la Russia è un atto indegno, un insulto alla storia e alla memoria delle

vittime. La scusa è ovviamente legata al conflitto in Ucraina, ma è impossibile non vedere in questa

scelta l’ennesimo atto di revisionismo storico orchestrato dagli stessi attori che si autoproclamano

difensori dei valori democratici e della pace. L’Unione Europea, gli Stati Uniti e la NATO, con la

loro macchina propagandistica, sembrano voler riscrivere la storia per adattarla ai loro scopi politici

del momento, cancellando chi ha versato il sangue per liberare l’Europa da Hitler.


Zelensky e l’ombra del neonazismo

Come se non bastasse, tra i protagonisti della commemorazione troviamo figure come Volodymyr

Zelensky, presidente dell’Ucraina, che ha avuto il coraggio di ergersi a paladino della memoria.

Eppure, Zelensky guida un Paese dove formazioni neonaziste come il battaglione Azov non solo

esistono, ma vengono integrate nelle forze armate ufficiali, finanziate e celebrate. Si tratta dello

stesso tipo di ideologia che ha partorito i mostri dell’Olocausto e i crimini di Auschwitz. Come si

può accettare che un leader che tollera (o addirittura sostiene) tali gruppi abbia la legittimità morale

di parlare di memoria e di commemorare le vittime del nazismo?

Questo è il livello di cinismo che stiamo raggiungendo: si esclude la Russia, che ha liberato

Auschwitz, e si accolgono con tutti gli onori leader che si circondano dei peggiori epigoni

dell’ideologia nazista. Questo non è solo revisionismo storico, è un’oscenità morale.


Israele: memoria selettiva

E poi c'è Israele, che giustamente commemora le vittime dell’Olocausto, ma che oggi perpetua in

Medio Oriente una delle più grandi ingiustizie dei nostri tempi. Come si può piangere le vittime di

Auschwitz e, nello stesso tempo, rinchiudere milioni di palestinesi in una prigione a cielo aperto

come Gaza, privandoli dei diritti fondamentali, bombardandoli e relegandoli a una vita di

sofferenza? Questa è la stessa logica di oppressione che il mondo ha giurato di combattere dopo il

1945. Eppure, chiunque osi criticare Israele viene immediatamente tacciato di antisemitismo,

mentre i crimini contro i palestinesi continuano nell’indifferenza generale.


La narrativa occidentale: una macchina di propaganda

Questa è la realtà: l’Occidente ha trasformato la memoria in un’arma politica. La Giornata della

Memoria non è più un momento di riflessione collettiva e sincera, ma uno strumento di propaganda

per riscrivere la storia, per scegliere quali vittime contano e quali possono essere dimenticate.

L’assenza della Russia è solo l’ultimo esempio di questa deriva. Si parla di memoria, ma si calpesta

il sacrificio di milioni di soldati sovietici che hanno dato la vita per fermare la macchina di morte

nazista. Si piange Auschwitz, ma si chiudono gli occhi davanti a Gaza. Si condanna il nazismo del

passato, ma si tollerano i neonazisti del presente.


Una memoria mutilata

Quella che abbiamo visto quest’anno non è stata una vera commemorazione, ma una farsa. Una

memoria mutilata, distorta e strumentalizzata. Auschwitz senza la Russia è una celebrazione vuota,

una menzogna spacciata per verità storica. E finché continueremo a tollerare questa ipocrisia, non

potremo mai dirci veramente fedeli ai valori che questa giornata dovrebbe rappresentare.

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LUCA COSTA

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Riformiamo la giustizia

La giustizia italiana: tra ideologia, buonismo e l’urgenza di una vera riforma


Dal terremoto dello scandalo Mani Pulite (di cui forse un giorno conosceremo e comprenderemo l’epicentro), la giustizia italiana attraversa una crisi profonda, segnata da lentezza e inefficienza, politicizzazione e protagonismo esasperato dei giudici, nonché da una crescente sfiducia dei cittadini nei confronti del sistema giudiziario. Il problema non è solo formale, strutturale, ma anche culturale: troppe sentenze appaiono ideologicamente inquinate, lontane dal senso comune e dalla volontà del popolo italiano. Nonostante le promesse di cambiamento, le riforme in atto si limitano a relativi e bizantini tecnicismi, lasciando irrisolti i nodi fondamentali: chi controlla la magistratura, chi ne definisce l’agenda e come restituire credibilità al sistema? Al cuore del dibattito c’è una questione chiave: la giustizia deve essere amministrata in nome del popolo italiano, come sancisce la Costituzione, o continuare a rispondere alle logiche interne di un CSM sempre autoreferenziale e spaventosamente orientato a sinistra? Che dire, inoltre, della sottomissione dei giudici a ideologie (puntualmente sconfessate dagli italiani a ogni elezione) che trasfigurano la legge nelle aule dei tribunali?


Il fallimento delle riforme: sempre il dito, mai la luna 

Le riforme che si susseguono, a partire da quella Cartabia fino a quelle attualmente in discussione, si concentrano su dettagli tecnici o su aggiustamenti marginali, evitando accuratamente di mettere mano al cuore del problema. Si parla di separazione delle carriere, di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), di modifiche procedurali per accelerare i processi. Tutte questioni importanti, certo, ma nessuna di queste tocca la vera radice del problema: a chi rendono conto i magistrati ? Il CSM, nato per garantire l'autonomia della magistratura, si è trasformato nel tempo in un organismo dominato da correnti interne che funzionano come veri e propri Politburo. Nomine, promozioni, trasferimenti: tutto è gestito attraverso un sistema opaco indifferente a ogni criterio di merito. È qui che si gioca il destino della giustizia italiana, eppure nessuna riforma ha mai osato mettere in discussione il potere assoluto del CSM, nemmeno dopo il Caso Palamara. La riforma Cartabia, ad esempio, si è limitata a proporre modifiche al sistema elettorale del CSM senza affrontare il problema del peso eccessivo del CSM nel quadro dell’ordinamento italiano.


Giustizia: in nome di chi?

L’Italia è piena di casi che alimentano la percezione di una magistratura scollegata dal Paese reale. Alcune decisioni sembrano dettate più dal clima ideologico del momento che dall'applicazione imparziale della legge. In un tale contesto, il cittadino comune fatica a fidarsi del sistema giudiziario, percepito come lontano, inefficiente e troppo schierato politicamente. È qui che si pone la domanda cruciale: a chi risponde la magistratura? Il parlamento risponde al popolo, attraverso le elezioni. Il governo risponde al parlamento, che lo può sfiduciare. Ma la magistratura, almeno in Italia, sembra rispondere solo a sé stessa. È vero, l’indipendenza del potere giudiziario è un pilastro dello Stato di diritto, ma indipendenza non può significare assenza di controllo o autoreferenzialità. La giustizia deve essere amministrata in nome del popolo italiano, non secondo l’agenda ideologica di chi controlla il CSM.


La soluzione: riformare alla radice il sistema giudiziario

Per restituire credibilità e autorevolezza alla giustizia italiana, servono interventi radicali che non si limitino a riforme cosmetiche.

1. Avanzamento basato su concorsi trasparenti

Le carriere dei magistrati devono essere decise attraverso concorsi interni basati su criteri oggettivi: competenza, esperienza, risultati concreti. Non ci può più essere spazio per logiche di appartenenza a questa o quella corrente.

2. Riduzione del potere delle correnti

Le correnti della magistratura, nate come associazioni culturali, si sono trasformate in veri e propri partiti politici interni. Per spezzare questo sistema, si potrebbe introdurre il sorteggio per la nomina di una parte dei membri del CSM o prevedere criteri più stringenti per le decisioni sulle carriere.

3. Maggiore trasparenza

Tutte le decisioni del CSM – nomine, trasferimenti, promozioni – devono essere pubbliche e motivate. I cittadini hanno il diritto di sapere come vengono scelti i giudici e i pubblici ministeri che amministrano la giustizia in loro nome.

4. Riconnettere la magistratura al popolo La magistratura non può essere un potere totalmente scollegato dal resto del Paese. Serve un sistema di controllo che garantisca responsabilità senza compromettere l’indipendenza. Ad esempio, valutazioni periodiche più severe e una reale responsabilità disciplinare per i magistrati.


Sentenze inquinate: l’ideologia al posto della giustizia

Uno dei problemi più gravi del sistema giudiziario italiano è l’inquinamento ideologico delle decisioni. Il politicamente corretto è diventato il metro di interpretazione, sostituendosi spesso al testo e allo spirito della legge, nonché al buon senso più elementare. Accade troppo spesso che: - Reati gravi, come violenze di strada o aggressioni, vengano sanzionati con pene irrisorie o misure alternative, in nome di un malinteso principio di “recupero del reo”. - Delitti violenti contro le donne o commessi da stranieri vengano affrontati con una cautela ideologica che sembra privilegiare la tutela dell’imputato rispetto alla sicurezza delle vittime. - Si scelga di assecondare il clima culturale del momento, piuttosto che applicare in modo rigoroso il principio di proporzionalità tra reato e pena. Questo fenomeno si innesta su una visione ereditata dagli anni ’70, quando la giustizia veniva concepita come uno strumento per “rieducare” più che per punire, riducendo progressivamente la certezza della pena. Oggi questa impostazione appare del tutto inadeguata di fronte all’ondata di violenza selvaggia portata dall’aumento dei reati di strada e dalla pressione migratoria, che ha introdotto nuove dinamiche di criminalità urbana. Da notare che, in tal senso, le novità introdotte dalla Cartabia sono addirittura controproducenti, dal momento che le misure alternative alla detenzione sono state estese invece che ridotte o limitate.


Cosa avrebbe dovuto fare un governo di destra?

Di fronte a questa situazione, ci si sarebbe aspettati da un governo di destra una riforma profonda della giustizia. Non solo quella amministrativa o organizzativa, ma soprattutto una revisione dei codici penali e di procedura penale, per restituire credibilità al sistema e affrontare con decisione le nuove sfide della sicurezza. Ecco cosa i cittadini avrebbero voluto vedere: 1. Certezza della pena L’attuale sistema, incentrato su pene sospese, misure alternative e sconti di pena, non è più sostenibile. Serve un codice penale che garantisca che chi commette un reato grave paghi realmente per il suo gesto, senza facili scorciatoie. 2. Inasprimento delle pene per i reati violenti La risposta penale attuale è palesemente insufficiente di fronte all’aumento dei reati violenti. Le violenze contro le donne, gli stupri, le rapine e le aggressioni in strada devono essere puniti con pene esemplari, senza attenuanti ideologiche. 3. Maggiore severità contro la violenza di strada e i reati legati alla criminalità migrante La sicurezza dei cittadini deve tornare al centro della giustizia. È evidente che l’aumento della criminalità legata a contesti migratori richiede una risposta forte e determinata, che oggi manca del tutto. 4. Semplificazione delle procedure La lunghezza dei processi e la burocrazia infinita scoraggiano le vittime dal denunciare e rendono il sistema inefficace. Una riforma seria dovrebbe snellire i procedimenti, garantendo tempi rapidi e certezza dell’esito.


Le riforme attuali: un’occasione mancata

Le riforme in discussione, come quelle recenti, sembrano limitarsi a dettagli tecnici o ad aggiustamenti marginali. Si parla di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, di modifiche al sistema elettorale del CSM, di procedure per velocizzare i processi. Tutte misure utili, ma insufficienti a risolvere il problema centrale: la giustizia italiana è troppo condizionata dalle correnti interne e da un’ideologia buonista che non riflette più le esigenze della società. I cittadini non chiedono di smantellare l’indipendenza della magistratura, ma di garantire un sistema trasparente, meritocratico e realmente al servizio della legge e del popolo. Un sistema che metta fine al controllo delle correnti e alle decisioni influenzate da mode ideologiche.


Conclusione: il fallimento di una promessa

Un governo che si presenta come rappresentante della destra non può accontentarsi di riforme di facciata. Gli italiani si aspettano un cambiamento profondo, che riporti la giustizia dalla parte delle vittime, della legalità e della sicurezza. La riforma del codice penale e del codice di procedura penale non è più rinviabile, così come non è più accettabile una giustizia condizionata da logiche politiche o culturalmente inquinate. Se questa occasione sarà mancata, si continuerà a tradire il principio fondamentale della nostra Costituzione: che la giustizia sia amministrata in nome del popolo italiano. Perché questo popolo, sempre più esasperato dall’insicurezza e dall’ingiustizia, non può più tollerare un sistema che sembra rispondere a tutto, tranne che al buon senso e alla legge.


LUCA COSTA

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LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo


LIBRI DI LUCA COSTA:

RACCOLTA DI ARTICOLI DI LUCA COSTA:

 Craxi 25 anni dopo

Riformiamo la giustizia

Giornata della Memoria: l'oscenità di un'ipocrisia collettiva

Perché Putin piace?

Giustizia a orologeria

Disco Gaza

USAID

I politici europei: nani da giardino

Un continente sotto censura

Meloni, armi e cannoni

A cosa serve la NATO ?

La Russia non è una minaccia

Macron come Napoleone ?

L'imperatrice Ursula

Il massacro silenzioso

La giungla dell'energia

Il cancro delle liberalizzazioni

Macron: Orwell a Parigi

Gaza: l'orrore riprende

1999: la NATO bombarda la Serbia

Coraggio Vittorio



Craxi 25 anni dopo

 

Bettino Craxi: La Commemorazione di un Gigante della Politica Italiana e il Tradimento della Nostra Sovranità


Il 19 gennaio 2000 si spegneva ad Hammamet Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano e figura centrale della politica italiana degli anni '80. Venticinque anni dopo la sua morte, il giudizio sulla sua parabola politica e umana resta complesso, ma è impossibile ignorare il peso storico di un uomo che ha segnato un'epoca e che, con coraggio e determinazione, difese la sovranità nazionale e la dignità dell’Italia contro le ingerenze esterne. Craxi, primo presidente del Consiglio socialista nella storia della Repubblica, governò dal 1983 al 1987, gli anni d’oro della cosiddetta “Milano da bere”, ma anche un periodo di profondi cambiamenti per il Paese. Durante il suo mandato, l’Italia vide una crescita economica significativa, un ruolo più rilevante nella politica internazionale e una rinnovata centralità nell’ambito delle istituzioni europee. La sua visione modernizzatrice e il suo pragmatismo gli permisero di ottenere risultati che oggi sembrano irraggiungibili da una classe politica asservita agli interessi della tecnocrazia UE e dell’imperialismo USA e, ahinoi, priva di spina dorsale.


Sigonella: La Resistenza di uno Statista

Il momento più alto della carriera politica di Craxi, e forse il più significativo per comprendere la sua visione di sovranità nazionale, fu il celebre caso della Crisi di Sigonella, nell’ottobre del 1985. Quando il leader palestinese Abu Abbas divenne preda degli Stati Uniti dopo il dirottamento della nave Achille Lauro, Craxi rifiutò categoricamente di cedere alle pressioni americane per consegnarlo. In una mossa che ha pochi eguali nella storia contemporanea italiana, il presidente del Consiglio mise l’interesse e la dignità del Paese davanti a tutto, ordinando ai nostri soldati di circondare i soldati americani e impedire loro di portare via Abbas dal nostro suolo. Fu uno schiaffo morale per gli Stati Uniti, oltre che una lezione di politica estera, una dimostrazione di forza e autonomia che nessun altro leader italiano, prima o dopo di lui, ha mai osato replicare. In quel momento, Craxi non difese solo Abbas: difese il principio che l’Italia non era una colonia né un Paese subalterno. L’audacia e la fermezza resero Craxi (e Andreotti) un bersaglio agli occhi di Washington e della CIA, che da quel momento iniziarono a guardare con crescente fastidio al leader socialista.


L’Inizio della Fine: Una Caduta Pianificata?

Non è un mistero che la fine della Prima Repubblica, e con essa la caduta di Craxi, sia stata agevolata da dinamiche che andavano ben oltre le indagini di Mani Pulite. La lotta alla corruzione, sacrosanta e necessaria, fu trasformata in un’arma politica, uno strumento per disintegrare un’intera classe dirigente e aprire le porte alla Seconda Repubblica, quella dell’austerità, della sudditanza ai mercati internazionali e della perdita di sovranità nazionale. Craxi, con il suo potere, la sua autonomia e il suo carisma, rappresentava un ostacolo per chi, dentro e fuori l’Italia, desiderava un Paese più debole e manipolabile. Gli Stati Uniti non potevano tollerare un’Italia che osasse rivendicare sovranità e autonomia d’azione nello scenario globale. E così, la stagione delle monetine al Raphael fu il simbolo di una transizione violenta e pilotata, non solo da magistrati malati di protagonismo e giornalisti senza vergogna, ma anche da chi, dietro le quinte, aveva deciso che Craxi e il sistema dei partiti della Prima Repubblica dovevano essere spazzati via.


Il Lasciato di Craxi: Un Vuoto Che Fa Ancora Rumore

Oggi, a distanza di venticinque anni dalla sua scomparsa, il vuoto lasciato da Craxi necessita da parte nostra studio, comprensione, ricerca della verità. Nonostante le ombre del suo governo – gli scandali, la corruzione, il finanziamento illecito ai partiti – resta il fatto che Craxi fu un gigante rispetto ai nani politici che lo hanno seguito. Era un uomo capace che aveva una visione, che credeva nella politica come strumento di trasformazione e che non aveva paura di sfidare i potenti del mondo per difendere gli interessi del suo Paese. I nostri interessi. L’Italia di oggi, fragile e subordinata, ha perso quella capacità di alzare la testa. Craxi fu un uomo di Stato che seppe essere leader in un’epoca in cui la politica contava ancora qualcosa. E forse è proprio per questo che fu condannato a una morte in esilio, abbandonato da alleati (dentro e fuori il PSI: Amato e Ciampi) e tradito da un paese che aveva contribuito a rendere grande. Craxi non fu un santo, e nessuno dovrebbe provare a dipingerlo come tale. Ma il suo nome merita di essere ricordato per quello che ha rappresentato: una stagione in cui l’Italia, pur con i suoi limiti e le sue contraddizioni, osava dire “no” ai potenti e difendere il proprio diritto a decidere da sola il proprio destino. Se oggi ci lamentiamo di un’Italia ridotta a spettatrice del proprio declino, incapace di opporsi alle decisioni prese altrove, allora dobbiamo chiederci: chi ha guadagnato dalla caduta di Craxi? E soprattutto, chi ha perso?


LUCA COSTA

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Israele contro i Cristiani

 Cisgiordania: Israele contro i cristiani Nel cuore della Cisgiordania, a pochi chilometri da Ramallah, sorge Taybeh, l’ultimo villaggio ...