Italia, sicurezza alla deriva: quando la magistratura dimentica il popolo in nome del quale dovrebbe giudicare
C’è un’Italia che chiede sicurezza. Un’Italia che non ne può più. Donne che hanno paura a camminare da sole la sera. Anziani barricati in casa. Genitori che non osano più mandare i figli a scuola da soli. È la realtà quotidiana: violenze gratuite, stupri, accoltellamenti, aggressioni, risse, rapine. Una spirale crescente che ha travolto il Paese e che mostra, ogni giorno di più, la totale impotenza dello Stato nel garantire l’ordine e la legalità.
Il sentimento diffuso, in ogni classe sociale e in ogni fascia d’età, è uno solo: insicurezza. Una paura ormai radicata, non più frutto di percezioni alterate, ma confermata giorno dopo giorno dai fatti. Anche in quelle realtà di provincia un tempo simbolo di pace e tranquillità. E di fronte a tutto questo, la risposta dello Stato è rimasta la stessa: inadeguata, farraginosa, permissiva.
Il nostro impianto penale e processuale — costruito per una società diversa (e scomparsa) — è divenuto un ostacolo strutturale alla giustizia (quella vera). Un sistema che ha smarrito il principio basilare della deterrenza, sostituito da un’ideologia buonista degna di un “liberi tutti” incondizionato. Sconti di pena “di default”, misure alternative alla detenzione estese anche ai recidivi, sospensioni condizionali, rinvii, cavilli, attenuanti generiche — tutto ruota attorno al reo, mai attorno alla vittima.
Oggi in Italia si può aggredire una donna e non fare nemmeno un giorno di carcere. Si può accoltellare per una lite e tornare liberi in meno di ventiquattr’ore. Si può vivere da ladro seriale e continuare a godere dei benefici di un sistema “rieducativo” che ha completamente perso contatto con la realtà.
Questo non è più tollerabile. Non esiste civiltà senza ordine, e non esiste ordine senza la certezza che ogni gesto criminale porti conseguenze vere, rapide, visibili. Il cittadino deve sapere che lo Stato lo protegge. Il delinquente deve sapere che lo Stato lo punirà. Subito.
Occorre dunque una svolta radicale: un nuovo automatismo tra reato e carcere, soprattutto per i reati violenti. Chi agisce con violenza deve essere immediatamente allontanato dalla società. Senza se, senza ma. Basta scorciatoie, basta buonismo ideologico.
Ed è proprio in questo contesto che il governo Meloni — pur con ritardo e timidezza — ha presentato un nuovo Disegno di Legge Sicurezza, recentemente approvato alla Camera. Il provvedimento introduce misure che vanno in parte nella giusta direzione:
Inasprimento delle pene per occupazioni abusive di immobili, con reclusione da 2 a 7 anni.
Reintroduzione del reato di blocco stradale o ferroviario, con pene da 6 mesi a 2 anni.
Aggravanti per reati commessi in stazioni o mezzi pubblici.
Possibilità per il giudice di negare il rinvio della pena per madri condannate se sussiste rischio di recidiva.
Divieto di vendita di SIM a migranti irregolari.
Classificazione della cannabis light come sostanza stupefacente.
Uso esteso delle bodycam per le forze dell’ordine.
Aumento delle pene per resistenza e violenza a pubblico ufficiale.
Estensione del Daspo urbano anche a chi ha commesso reati contro la persona o il patrimonio in contesti pubblici.
Misure condivisibili, per certi aspetti. Ma diciamolo con franchezza: largamente e totalmente insufficienti a fronteggiare la gravità della situazione. Si tratta di aggiustamenti, correzioni di rotta marginali, non di una riforma organica. Il codice penale e il codice di procedura rimangono inadeguati e in ritardo di trent’anni. La violenza continua a camminare indisturbata nelle nostre strade.
E proprio quando un governo — seppure con goffaggine e ritardo — prova almeno in parte a toccare questi temi, ecco che una parte della magistratura scende in campo per attaccare il DdL, non per ragioni tecniche, non per rilievi costituzionali, ma per esplicite prese di posizione ideologiche e politiche. È l’ANM, l’Associazione Nazionale Magistrati, a prendere la parola con toni da comizio, schierandosi apertamente contro l’impostazione del governo.
Ma chi ha autorizzato questi magistrati a comportarsi da attori politici? Dove finisce l’imparzialità e comincia l’attivismo? La magistratura non ha il diritto di dettare la linea politica a un governo democraticamente eletto, soprattutto su temi — come la sicurezza pubblica — che riguardano direttamente la volontà popolare.
La Costituzione parla chiaro: i magistrati giudicano in nome del popolo italiano. Ma oggi una parte della magistratura ha evidentemente dimenticato chi è quel popolo, cosa vive ogni giorno, cosa chiede da anni. Si mostrano imparziali con i criminali, ma militanti contro chi cerca — finalmente — di ridare senso alla legge.
È legittimo chiedersi: da che parte stanno queste toghe? Difendono i cittadini o difendono sé stesse? Difendono la legalità o un’ideologia? Vogliono applicare la legge o usarla per combattere chi non la pensa come loro?
Attenzione: qui non si tratta di difendere il governo. Anzi, il governo Meloni è colpevole di mendacio ed è colpevolmente in ritardo su tutto, le sue risposte sono deboli e insufficienti. Ma proprio per questo è ancora più grave che una parte della magistratura decida di usare la sua funzione per ostacolare, pubblicamente e politicamente, ogni tentativo di intervento, anche minimo.
La separazione dei poteri non è un pretesto per fare politica in toga. Se un magistrato vuole partecipare al dibattito pubblico, ha uno strumento: si candidi. Altrimenti taccia, e giudichi — in silenzio, con equilibrio, con rispetto per il popolo da cui trae legittimità.
Oggi l’Italia ha bisogno di sicurezza. E ha bisogno di una giustizia che non sia né militante né complice. Ha bisogno di riforme serie, radicali, urgenti. Ma ha anche bisogno che ognuno torni al proprio posto, e rispetti il confine tra la funzione che esercita e il potere che non gli compete.
Il tempo delle parole è finito. Adesso serve serietà, responsabilità, coraggio. O la frattura tra Stato e cittadini diventerà definitiva.
LUCA COSTA
PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo
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