giovedì 1 maggio 2025

Giustizia mediatizzata

 

Quando la toga diventa spettacolo: contro la mediatizzazione oscena della giustizia

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C’è una linea sottile, ma invalicabile, tra il diritto alla difesa e la pornografia mediatica. Una linea che sempre più spesso viene calpestata da avvocati che non si accontentano di esercitare il proprio mestiere in tribunale, ma che vogliono anche riscrivere il racconto pubblico del crimine, sfidare l’opinione collettiva e umiliare le vittime davanti a milioni di spettatori. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Arthur Aidala, avvocato di Harvey Weinstein — l’ex potente produttore hollywoodiano condannato per stupri, violenze e abusi sistematici su decine di donne. Un predatore seriale, non un perseguitato. Eppure Aidala, da settimane, è ovunque: talk show, prime pagine, interviste-fiume persino su Le Figaro, per sostenere che il suo cliente è stato trattato ingiustamente, quasi fosse una vittima della giustizia e non il carnefice di intere esistenze.

Ma Weinstein è solo il sintomo. Il problema è molto più vasto, e non è nuovo. Basti guardare alla carriera di Eric Dupond-Moretti, icona dell’avvocatura francese e poi, incredibilmente, promosso ministro della Giustizia dal presidente Macron. Prima di indossare la cravatta istituzionale, Dupond-Moretti ha difeso alcuni dei peggiori criminali e terroristi della storia recente francese. Non si è limitato a rappresentarli in aula — cosa assolutamente legittima — ma ha costruito su quelle difese una figura pubblica arrogante, provocatoria, ossessionata dalla ribalta. Ha fatto di ogni caso un palcoscenico, di ogni clientela estrema una passerella per esibirsi. E la sua promozione a guardasigilli è stata uno schiaffo alle famiglie delle vittime, un messaggio cinico: la spettacolarizzazione della giustizia non solo è tollerata, ma può portarti in alto.

Il diritto alla difesa è un pilastro dello Stato di diritto. Ma è un diritto che serve a proteggere il cittadino dall’abuso del potere giudiziario, non a concedere a un avvocato ambizioso il diritto di riscrivere la narrazione morale del crimine davanti alle telecamere. Il processo si fa in aula, non in prima serata. E la toga non è una licenza per gettare fango su chi ha già sofferto.

In questo circo, le vittime diventano comparse. Donne violate, famiglie distrutte, comunità traumatizzate: costrette ad assistere alla riabilitazione mediatica dei loro carnefici, rappresentati da uomini in giacca e cravatta che, con tono suadente e parole scelte, raccontano il male come fosse un malinteso. Ogni passaggio TV, ogni titolo, ogni intervista è un nuovo atto di violenza simbolica. Un tradimento della giustizia. Un insulto alla common decency, al semplice rispetto umano che dovrebbe precedere ogni altro principio.

C’è qualcosa di profondamente americano — nel senso peggiore del termine — in questa giustizia da show. E il cancro ha attecchito anche in Europa. Il tribunale è diventato uno studio televisivo. L’avvocato, una figura mediatica. Il crimine, una narrazione da manipolare. Ma noi dobbiamo ribellarci a questa deriva. La giustizia non è spettacolo. Non è marketing. Non è contenuto virale.

Il diritto alla difesa, quando è autentico, si esercita in silenzio. Con rigore. Con pudore. Perché la verità e la giustizia non hanno bisogno di luci, ma di responsabilità. Difendere un criminale è legittimo. Umiliare le vittime per difenderne l’immagine pubblica non lo sarà mai.

Dobbiamo dirlo. Senza più timori reverenziali verso i nomi famosi. Senza più inchini alla toga-star. Dobbiamo riprenderci il senso della giustizia. Quella vera. Quella giusta.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



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