L’Unione Europea sta distruggendo il nostro calcio. E noi restiamo in silenzio.
3-0.
Italia
umiliata in Norvegia.
Siamo
arrivati a
questo : rischiamo di non qualificarci al Mondiale dell’anno
prossimo. Dopo due Mondiali mancati, rischiamo ancora di rimanere a
casa.
La
Gazzetta fa i meme,
i commentatori parlano del CT,
Zazzaroni
dice che "la crisi non ha soluzioni".
Ma non è vero. È una menzogna.
La
crisi ha una causa precisa e una soluzione possibile.
Solo
che nessuno ha il coraggio di nominarla.
La
verità è che in Serie A non gioca più nessun italiano.
E
la verità
ancora
più grande
è
che non ci è permesso cambiare questa realtà,
perché
siamo
prigionieri di un sistema giuridico europeo che mette la libera
circolazione prima di tutto, anche prima della sopravvivenza
culturale e sportiva dei popoli.
Nessuno in campo. Nessuno da convocare.
È
inutile girarci attorno.
Quando
un CT —
chiunque
sia —
deve
scegliere ventitré
giocatori
e si ritrova con quattro portieri titolari italiani e mezzo difensore
centrale, non è sfortuna. È suicidio sistemico.
La
Serie A oggi è straniera all’80%,
in certe giornate si giocano partite intere senza un solo italiano in
campo.
E
non è che siano tutti fenomeni. Sono stranieri mediocri,
normalissimi, presi solo perché
più
comodi da gestire, più convenienti da piazzare, più manipolabili da
certi procuratori.
E apparentemente meno costosi (apparentemente).
Allora
uno si chiede: ma perché
non
possiamo cambiare le regole?
Perché
non
si può dire: "almeno
6 italiani in campo per squadra"?
“Eh, ma l’Unione Europea…”
E
lì
parte
la favola.
Il
vincolo, l’ostacolo,
la scusa: la Corte di Giustizia dell’Unione
Europea non lo permette.
Dal
famoso caso Bosman in poi, ci hanno spiegato che non si possono fare
distinzioni in base alla cittadinanza.
Che
un calciatore spagnolo, lituano, o bulgaro ha gli stessi diritti di
un italiano in Italia.
Che
tutto ciò che conta è la libera circolazione del lavoro.
Ma
davvero stiamo mettendo sullo stesso piano il ruolo di un centravanti
nella Serie A italiana e un lavoratore interinale in un’impresa
metalmeccanica?
Davvero
pensiamo che una Nazionale di calcio non sia un'espressione
culturale, sociale, identitaria da proteggere come patrimonio comune?
Ma quindi la Corte europea è competente in materia calcistica?
Ecco
l’altra
domanda. E la risposta è tanto semplice quanto paradossale:
sì,
perché
il
calcio è trattato come un semplice “mercato
del lavoro”.
È
un concetto che fa quasi ridere per quanto è ottuso.
Come
se il valore della maglia azzurra fosse un affare contrattuale.
Come
se il sistema calcio fosse identico a quello del trasporto merci.
Ma non è così. Non può esserlo. Non deve esserlo.
Il
calcio è formazione, selezione, rappresentanza.
Una
Nazionale è espressione della crescita sportiva interna di un Paese,
non una squadra commerciale.
Ma allora perché, in altri settori, la cittadinanza conta?
Eppure,
eppure.
Ci
sono ruoli pubblici, professioni, ambiti in cui la cittadinanza è
richiesta eccome.
Vuoi
fare il preside di un liceo in Francia? Devi essere francese.
Vuoi
lavorare per lo Stato tedesco? Devi essere cittadino tedesco.
Vuoi
entrare in polizia o in magistratura? Devi avere la nazionalità
del
Paese.
E
allora perché
nel
calcio no?
Perché
nel
calcio ogni forma di preferenza nazionale è trattata come
discriminazione?
La risposta è atroce: perché nessuno ha mai avuto il coraggio di opporsi.
Tutti zitti. Tutti complici.
L'UE
non ci ha imposto tutto questo con un decreto armato.
Siamo
noi ad aver accettato tutto.
La
nostra classe dirigente calcistica —
dai
vertici FIGC ai presidenti di Lega —
non
ha mai osato nemmeno provarci.
Mai
una richiesta di deroga.
Mai
una proposta per proteggere la Nazionale come bene culturale.
Mai
una battaglia vera, nemmeno simbolica.
Solo passività, conformismo, autodistruzione lenta.
E intanto altri Paesi si difendono. Noi no.
Ci
sono Paesi fuori dall’UE
(in Europa e in altri continenti) che
limitano il numero di stranieri,
eccome se lo limitano.
Ci
sono campionati che impongono quote minime di giocatori locali.
Loro
possono, noi no.
Loro
hanno un calcio protetto, nazionale, radicato.
Noi
abbiamo un calcio colonizzato, svuotato, indifferente.
E
la cosa più ridicola è che noi accettiamo questa disparità
senza
nemmeno protestare.
All’interno
della stessa UEFA, esistono due velocità:
Paesi liberi di tutelare il proprio calcio,
e noi, paesi membri dell’UE, bloccati dal dogma della concorrenza.
La Serie A è diventata un supermercato di passaporti
Abbiamo
ridotto il nostro campionato a un esercizio di speculazione.
I
settori giovanili sono morti.
Gli
italiani sono fuori squadra già
a
19 anni.
E
quando manca il Mondiale, ci sorprendiamo?
Questa
non è sfortuna.
È
scelta
politica, giuridica, economica.
È
la
mancanza totale di volontà
di
difendere un’identità
sportiva
nazionale.
La verità? La nostra classe dirigente ha venduto il calcio italiano
La
cosa più grave
è
che la colpa non è nemmeno tutta dell’Europa.
Il
problema vero siamo noi, i nostri vertici, la nostra paura di
combattere.
Il
calcio italiano è stato svenduto a interessi economici, clientelari,
elettorali.
È
in
mano a dirigenti polverosi, baroni inadeguati, funzionari di se
stessi.
E
intorno, una stampa sportiva ormai asservita al teatrino.
La
Gazzetta dello Sport non è più
un giornale: è un rotocalco rosa per click e sponsorizzazioni.
Dove si tacciono i problemi del nostro calcio e si applaudono scempi
calcistici come l’ingaggio di Allegri da parte del Milan, o quello
di Modric che ha 40 anni, o la cessione di Reijnders (per una volta
che c’era uno straniero forte!).
Le
trasmissioni televisive sono cabaret.
Nessuno
ha più il coraggio di dire le cose come stanno.
La soluzione esiste. E va imposta.
Basta
con la scusa che “non
si può fare”.
Se
vogliamo salvare il calcio italiano, servono scelte forti e nette:
Proporre una norma che imponga un numero minimo di italiani in campo, e portare la questione fino in fondo, anche davanti alla Corte UE, anche rischiando.
Far riconoscere la Nazionale e i vivai come beni culturali strategici da proteggere.
Sostituire tutta la classe dirigente calcistica italiana con figure competenti, indipendenti e libere da conflitti.
Smettere di chiedere il permesso a Bruxelles per difendere noi stessi.
Conclusione: o combattiamo, o ci spegniamo
Chi
oggi dice che “non
ci sono soluzioni”(come
Ivan Zazzaroni)
è parte del problema.
Chi
non ha il coraggio di sfidare le regole europee, non difende il
calcio italiano.
La
crisi della Nazionale non è un mistero. È il riflesso diretto di un
Paese che ha smesso di credere in sé
stesso,
anche nel calcio.
Ma
si può ancora cambiare.
A
patto di alzare la voce. A patto di dire la verità.
LUCA COSTA
PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo
Nessun commento:
Posta un commento