lunedì 21 aprile 2025

Vai con Dio, Bergoglio...

 

Addio a Papa Francesco: un pontificato tra ambiguità, semplificazioni e incoerenze

La morte di Papa Francesco segna la fine di un pontificato che, più di ogni altro negli ultimi decenni, ha spaccato il mondo cattolico. E non per lo zelo riformatore o per l’audacia evangelica, ma per una persistente ambiguità che ha finito per minare la coerenza del messaggio cristiano. Jorge Mario Bergoglio, il Papa “venuto dalla fine del mondo”, ha portato con sé una visione pastorale intrisa di semplificazioni, infarcita di luoghi comuni dal retrogusto politicamente corretto, che spesso hanno oscurato la profondità dottrinale della Chiesa.

Il suo ecologismo militante ha toccato l’apice con l’enciclica Laudato Si’, un testo che sembrava scritto più per Greenpeace che per il Popolo di Dio. Tra inviti all’uso dei trasporti pubblici, riflessioni sull’inquinamento urbano, sulle pale eoliche e sui pannelli solari, si è perso completamente il senso escatologico del creato, ridotto a un giardino da custodire anziché un dono da riportare a Dio. Una deriva confermata dalla successiva Laudate Deum, in cui il Papa si è spinto ancora oltre, abbracciando senza filtri la retorica delle agende globaliste sul cambiamento climatico, con richiami a summit internazionali e appelli ossessivi al “grido della Terra”, mentre il grido dei cristiani perseguitati nel mondo restava inascoltato.

Emblematica, e al tempo stesso grottesca, l’immagine del 2015 quando sulla facciata di San Pietro vennero proiettate immagini di animali, mari inquinati e ghiacciai che si sciolgono, in uno spettacolo che sembrava più un’installazione da Biennale di Venezia che un gesto liturgico. Un’operazione di dubbio gusto, che ha trasformato la casa di Dio in uno schermo pubblicitario per la religione ecologista.

Nel frattempo, temi cruciali come l’aborto, l’identità sessuale, la famiglia e l’eucaristia sono stati affrontati con toni vaghi, sfuggenti, improntati a un lassismo pastorale che ha lasciato campo libero alle peggiori interpretazioni. Amoris Laetitia ha aperto una stagione di confusione dottrinale senza precedenti, in cui il discernimento individuale è diventato il nuovo dogma e l’eccezione ha finito per divorare la regola.

Le catechesi del mercoledì, infarcite di aneddoti banali e affermazioni ad effetto, hanno lasciato a bocca asciutta chi cercava una guida spirituale salda. L’attacco sistematico alla messa in latino, culminato nel Traditionis Custodes, ha rappresentato un atto di autolesionismo ecclesiale: colpire con durezza proprio quei fedeli più devoti, spesso giovani, spesso convertiti, che nel rito antico avevano trovato una via per ritornare alla fede in un contesto post-liturgico devastato dagli anni Settanta.

E in tutto questo, la figura di Victor Manuel “Tuco” Fernández rimane come il simbolo della vera catastrofe intellettuale e spirituale di questo pontificato. Posto alla guida del Dicastero per la Dottrina della Fede — un dicastero che dovrebbe essere il garante dell’ortodossia — questo teologo da telenovela si è distinto solo per la sua disarmante inconsistenza. Autore di testi ai limiti del ridicolo, come il famigerato Guariscimi con la tua bocca, una raccolta di riflessioni amorose travestite da teologia, è stato il complice perfetto di un pontificato che ha messo il sentimento sopra la verità. Con Fiducia Supplicans, ha firmato uno dei documenti più controversi e sconcertanti dell’intero magistero recente, benedizioni ai limiti del sacrilego per “coppie irregolari” con la scusa della pastorale, sancendo il trionfo della confusione.

La sua nomina non è stata solo un errore: è stata una dichiarazione di guerra all’intelligenza teologica della Chiesa. Un attentato alla Tradizione, un affronto al sensus fidei del popolo cattolico. Se il pontificato di Francesco verrà ricordato per la sua deriva orizzontale, Fernández ne sarà l’epitaffio intellettuale. Una sciagura vivente, il cui lascito sarà ricordato — ci si augura — come un monito e non come un modello.

Ma proprio questo stadio di deliquescenza ecclesiale deve suonare come un risveglio per i laici cattolici. È finito il tempo dell’attesa passiva, del cristiano che spera in un papa perfetto e una Chiesa perfetta che gli porti la colazione a letto. Non c’è più spazio per il disimpegno mascherato da ironia, né per il rifugio sterile nel bricolage spirituale o nel fantacalcio ideologico. Oggi più che mai, dobbiamo sperare in Cristo e accompagnare la Chiesa — anche ferita, anche claudicante — con un’azione decisa, virile, adulta.

I laici cattolici devono riprendersi il proprio posto nella battaglia culturale, spirituale e politica del nostro tempo. Con la preghiera, certo. Ma anche con l’educazione, con la formazione di élite nuove, con il lavoro concreto nei territori, nei media, nelle università, nei parlamenti. È ora di uscire dalla nicchia e tornare a essere lievito nella massa. Perché se la Chiesa è in crisi, è anche perché troppi suoi figli hanno preferito addormentarsi sulle ginocchia del mondo, anziché combattere sotto lo stendardo della Croce.

LUCA COSTA

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