Il PSG di Luis Enrique: il trionfo dell’ordine sull’anarchia
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Ieri sera, sotto il cielo europeo illuminato da lampi parigini, il Paris Saint-Germain ha inferto all’Inter una lezione calcistica di rara durezza e bellezza. Non una partita, ma un trattato di geometria applicata al pallone. I nerazzurri sono stati travolti, sopraffatti, smontati pezzo dopo pezzo da una macchina perfettamente oliata. Un’armata calcistica con la regia ferrea di un condottiero che pare uscito da un romanzo di guerra più che da Coverciano: Luis Enrique Martínez García.
Allenatore visionario, sì, ma non nel senso fragile e impalpabile dei profeti vaghi. Visionario come può esserlo un architetto della disciplina, un costruttore di sistemi, un cesellatore di uomini. Luis Enrique non allena soltanto; plasma, piega, trasforma. Non seduce i calciatori: li doma. E se qualcuno osa sollevarsi sopra il gruppo, anche solo con un sopracciglio, viene disarcionato senza appello. Chi pensa al talento come privilegio individuale è fuori dalla porta. Mbappé lo sa bene. Addio.
Lì dove il talento tende all’anarchia, Luis Enrique oppone il culto dell’ordine. Niente estetismi da salotto, nessuna carezza all’ego del singolo. La squadra è tutto, il collettivo è il vangelo. Il sacrificio è l’unico gesto davvero poetico. I suoi uomini corrono, scalano, pressano come dannati, ma con la lucidità dei matematici. È calcio al tempo stesso militare e musicale. Se i suoi giocatori sono strumenti, lui è il direttore d’orchestra con lo sguardo da maresciallo sovietico.
Un calcio totalitario? Forse sì. Ma tremendamente efficace.
Come nei grandi regimi della storia, la libertà individuale viene compressa in nome di un’idea superiore. E funziona. Il PSG, spesso ridotto a caricatura glamour del football moderno – stelle, selfie e capricci – è diventato una caserma della bellezza applicata al pressing. Altro che “galacticos”. Questo è un esercito rivoluzionario. Ieri sera, l’Inter di Inzaghi – abituata a dominare con raziocinio e atletismo – sembrava un gruppo di scolaretti travolti da un’intifada calcistica.
Luis Enrique è il Putin del calcio, e l’espressione, seppur provocatoria, non è vuota. Ha il gelo dello statista, l’ossessione del comando, la visione imperiale. Vincente, bello, forte – ma mai democratico. Non chiede, ordina. Non ascolta, impone. La sua idea di calcio è verticale e rigida come un ministero degli interni: o sei dentro o sei fuori. E dentro, si vince. Sempre.
Nel calcio, come nella politica, le squadre – come le nazioni – si perdono quando a guidarle sono i mediocri, i titubanti, i democratici del consenso. Serve invece l’uomo forte, il tecnico-statesman, capace di tenere la barra dritta e lo sguardo fisso sul traguardo. Luis Enrique non si piega, non sorride, non ammalia. Domina.
E se il calcio è davvero la metafora perfetta della vita, allora questo PSG è una lezione. Le cose vanno bene quando l’interesse collettivo annienta l’individualismo sterile. Quando l’allenatore guida, non asseconda. Quando i calciatori diventano cittadini, e la squadra una Repubblica forte e disciplinata.
Altro che Messi, Neymar e Mbappé. Con Luis Enrique, la vera stella è l’idea. Ed è quella che ha vinto, travolgendo non solo l’Inter, ma tutta un’epoca di calcio viziato. Brera lo avrebbe detto meglio, ma forse non con più convinzione.
“Il pallone è una sfera, ma Luis Enrique lo fa marciare come un quadrato perfetto.”
LUCA COSTA
PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo
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