Ius
scholae? Ius soli? Parliamone seriamente. Cosa vuol dire oggi “essere
italiani”?
Nel
dibattito sullo ius
soli
e sullo ius
scholae,
si continua a fingere che la posta in gioco sia puramente burocratica
o umanitaria. Bambini nati o cresciuti in Italia, che parlano
italiano, che frequentano le nostre scuole, che —
si
dice —
“sono
già
italiani”.
Parliamone.
Ma
alla
luce di un altro punto prospettico
:
quello culturale.
Prima
però,
nominiamo apertamente la variabile che domina il presente dibattito
sulla questione della cittadinanza, indipendentemente dallo ius
da applicare.
La
questione è la paura.
Gli italiani hanno paura.
Paura
che l’Italia,
sotto la superficie dei diritti civili, stia cambiando pelle, lingua,
spirito. Paura che la
nazione diventi
qualcosa d’altro,
qualcosa che molti italiani —
spesso
in silenzio, spesso da soli —
non
riconoscono più.
Cittadinanza
senza identità?
Lo
ius
soli
è spesso presentato come un gesto di civiltà.
Come
la condizione necessaria e sufficiente dell’integrazione e, di
conseguenza, di un futuro vivere
insieme
(il vivre
ensemble,
sostantivo e non verbo, come in Francia), armonioso e pacifico. Ma
che valore ha la cittadinanza, se chi la riceve non eredita nulla
della nostra cultura?
Costumi,
religione, abitudini, laicità, uguaglianza, etc. E
quid
se chi dovrebbe trasmettere quell’eredità
— Stato,
scuola, cultura —
ha
smesso di crederci per primo?
In breve : a cosa (dove e come) dovrebbe integrarsi oggi un immigrato
o un figlio di immigrati nato in Italia ?
In
teoria, la scuola italiana dovrebbe essere il luogo in cui si diventa
italiani. Ma oggi essa
non
forma italiani, li disfa. Disitalianizza,
passatemi il termine. Non è certo
colpa degli studenti stranieri, bensì
di
un sistema che ha rinunciato a trasmettere
la
storia,
la
lingua, la visione italiana del mondo. Si insegna invece
a
colpevolizzarsi, a disprezzare la tradizione, a ridicolizzare il
patriottismo, a considerare la cultura italiana come un fastidio o,
peggio, come un ostacolo al “progresso”.
E allora perché diventare italiani se a scuola si impara a
vergognarsi di essere italiani? Meglio restare attaccati al cordone
ombelicale delle proprie origini, magrebine, rumene, albanesi o poco
importa quali.
La
scuola come fabbrica di smarrimento
Andare
a scuola in Italia, da
una trentina d’anni,
non significa
più lavorare per
diventare
italiani
e costruire un terriccio culturale comune sul quale radicare e
costruire la propria vita.
È
diventare altro.
È
imparare a dire che Dante è omofobi,
che il Risorgimento è una fandonia,
che il cattolicesimo è oscurantismo, che la Resistenza è divisiva,
che Pasolini va bene solo se filtrato attraverso il prisma
arcobaleno, che
Gramsci è il catenaccio di un mondo perduto e che
patria
è una parola che
è meglio
evitare.
La
cultura italiana non viene più trasmessa: viene decostruita,
relativizzata, delegittimata. Nel suo posto, un indistinto
“universalismo”
politicamente
corretto, fatto di vittimismi seriali, ideologie globaliste, e valori
preconfezionati nei campus americani.
Italiani
per nascita
o
per scelta
?
E
allora la domanda vera è: cosa significa oggi “essere
italiani”?
Domanda
chiave eppure nessuno, ma proprio nessuno,
ha
il coraggio di
porla sul serio. Dire “Italia”
in
pubblico, oggi, è come bestemmiare. Ci si scusa, si aggiunge un
asterisco, si modera.
E se non si ha più il coraggio di affermare
“questa
è l’Italia”
che
senso ha parlare di cittadinanza?
L’Italia
non è una razza. Non
è questione di sangue ma di appartenenza
culturale.
E nessuna legge, nessun articolo del codice civile, nessuna riforma
parlamentare può fabbricare un’appartenenza
astratta,
fluida, liquida, in
laboratorio.
La
cittadinanza senza identità è solo burocrazia. E oggi, di fatto, è
questo che si vuole: una cittadinanza per
tutti, ma vuota.
Chi
ha paura del futuro?
Gli
italiani hanno paura. Non tanto dello straniero in sé,
ma del vuoto che li circonda
e di chi e come un giorno potrà riempirlo questo vuoto.
Riempirlo con contenuti che italiani non sono. Esempio : l’islam,
con la sua visione della donna e la sua volontà di dominio sulle
altre fedi, per esempio. L’Italiano non ha paura dell’islam in
quanto religione, in quanto spiritualità. Anzi! ben venga chi ha una
visione meno materialista e meno consumistica dell’uomo! L’Italiano
teme l’imposizione dell’ortoprassia
islamica, teme che il paesaggio pubblico diventi lo spazio della
ritualità e dei costumi islamici (ramadan, veli, burqa, moschee,
violenza, intolleranza). Perché
se nessuno
si
vuole
integrare davvero,
se nessuno vuole più assimilarsi, allora ogni comunità resterà
(cittadina o meno) quello che è, e la conseguenza è evidente:
la demografia sarà la sola variabile che conta!
Se
provvista di cittadinanza, e quindi di diritto di voto attivo e
passivo, la prima minoranza che diventerà numericamente
maggioritaria imporrà i suoi costumi attraverso la legge. Facile
come bere un bicchier d’acqua. Un precedente da portare come
esempio? Semplice : il Libano.
Cos’è
oggi l’Italia? Una piccola tessera insignificante nel puzzle
dell’UE, quell’UE che non è altro che il negozio in franchising
dell’impero americano. È
un mercato.
Solo un mercato. L’Italia
oggi è questo: una colonia
mercantile,
culturale e politica. Importiamo
tutto: prodotti,
idee, serie TV, parole
inglesi, manodopera a basso costo, energia, presidenti
del consiglio benedetti da Bruxelles.
Siamo
una colonia! E
una colonia non ha più il diritto di tramandare la propria identità!
I nostri padroni (USA) hanno deciso che la nostra identità nazionale
deve sciogliersi, scomparire. Fine della Storia.
E
allora che senso ha parlare di cittadinanza? Cittadinanza di cosa?
Se
l’Italia
fosse ancora l’Italia,
se nelle scuole si insegnassero davvero Roma,
i Gracchi e Cesare.
Il
cattolicesimo
medievale, il
Rinascimento
bello e arrogante,
il Risorgimento
della speranza,
e si studiassero Gramsci, Pasolini, Calvino, Don Bosco e Frassati!
La
Resistenza!
Se
ci fosse ancora un progetto nazionale,
italiano,
da condividere, allora sì:
lo ius
soli
potrebbe essere una grande
speranza
di fronte al calo demografico!
Allora sì:
si potrebbe dire che chi cresce qui, diventa
uno di noi.
Perché di fronte a una storia tanto luminosa, a una civiltà cosi
ricca e fiera, ma chi non vorrebbe assimilarsi? Chi non vorrebbe
diventare italiano avendo il privilegio di conoscere davvero le
pietre preziose che costituiscono il codice genetico della nostra
cultura? Chi non vorrebbe farle proprie?
Se
la nostra cultura fosse davvero trasmessa con orgoglio, se la nostra
lingua fosse ancora sacra, cosi come i nostri costumi, il nostro
amore per la libertà della donna, il nostro orgoglio per la
Resistenza più bella d’Europa, la nostra voglia di rivivere
l’avventura dei Santi. Di conoscere e far conoscere Galileo,
Marconi, Fermi. L’Italia è la luce del mondo, chi pretenderebbe
(vivendo qui) di stare al buio? Chi avrebbe paura di condividere un
tesoro inesauribile?
Ma
oggi non è così.
Stiamo
bene attenti, cari i miei Tajani della malora. Non si tratta di
discutere il cavillo burocratico che permetta di accedere a un
passaporto.
Oggi
si
tratta di capire se esiste ancora un’Italia
a cui valga la pena appartenere.
LUCA COSTA
PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo