giovedì 14 agosto 2025

Europa: senza fede e senza pace

 Alla vigilia dell’incontro USA - Russia in Alaska, lo spettacolo sconcertante di un’UE che rifiutò il Cristianesimo

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Mentre Donald Trump e Vladimir Putin si apprestano a incontrarsi in Alaska per discutere, con ogni probabilità, di un possibile cessate il fuoco in Ucraina,
l’Europa politica si muove in direzione opposta. Non verso la pace, ma verso l’ostinata prosecuzione di un conflitto che la realtà dei fatti ha già deciso.

Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Keir Starmer, Friedrich Merz, Giorgia Meloni: nomi diversi, governi diversi, ma una linea comune. Nessuno di loro sembra disposto ad ammettere che l’Ucraina, sul terreno, ha perso porzioni significative del proprio territorio – regioni abitate in larga maggioranza da popolazioni russofone che si sentono e vogliono essere russe. Nessuno si interroga sul senso di spingere Kiev a “riconquistare” oblast dove il bicolore giallo-blu sarebbe visto da molti come un vessillo ostile.

Perché allora proseguire? Perché, nonostante il numero già enorme di morti e mutilati, Zelensky continua a ricevere da Bruxelles, Parigi, Londra, Berlino e Roma la stessa parola d’ordine: resistere, combattere, insistere? È una scelta strategica o una macabra contabilità, dove le vite ucraine sono considerate semplici “risorse” da sacrificare sull’altare della geopolitica e dell’economia di guerra?

Il sospetto è legittimo: in un’Europa economicamente stremata, i bilanci delle industrie militari stanno conoscendo un’epoca d’oro. Commesse miliardarie, ordini a carico dell’Unione Europea, programmi di riarmo nazionale: il conflitto diventa benzina per un motore industriale che, in tempo di pace, non girerebbe a tali regimi. Il prezzo? Non lo pagano Parigi o Berlino, Londra o Roma: lo pagano i ragazzi ucraini che muoiono nelle trincee del Donbass e del fronte meridionale.

A questo punto la domanda è inevitabile: qual è l’obiettivo? Recuperare territori che, se mai “liberati”, andrebbero governati con misure repressive e militari costanti? O prolungare una guerra per mantenere viva un’economia di settore che, senza la guerra stessa, collasserebbe?

Sul piano morale, è un fallimento totale. Siamo di fronte a un’UE che ha rinnegato le proprie radici cristiane anche nella stesura della sua Costituzione, e che oggi si ritrova persa in un labirinto di menzogne, incapace di vedere e dire la verità, handicappata moralmente e razionalmente.
Un’Europa così non può costruire la pace, perché ha smarrito i principi e gli strumenti per riconoscerla.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo





martedì 12 agosto 2025

Israele-USA: relazione tossica

 Israele e il peccato originale dell’egemonia americana

Tra l’illusione di forza e il destino di fragilità

1. Premessa: il nodo Gaza e la crisi di civiltà

Alla vigilia del piano di Benjamin Netanyahu per un’occupazione totale di Gaza, Israele si trova di fronte a una domanda fondamentale: come ha potuto un Paese nato con un’ambizione di redenzione collettiva scivolare in una condizione di isolamento strategico, condannato a vivere in uno stato di assedio politico, morale e demografico? L’interrogativo non riguarda solo la congiuntura bellica: si tratta di comprendere se l’alleanza organica con gli Stati Uniti – tanto stretta da trasformare Israele nella “longa manus” militare di Washington in Medio Oriente – sia stata un moltiplicatore di forza o, al contrario, il suo peccato originale.

2. La nascita di un alleato necessario (1948-1973)

Israele nasce nel 1948 in un mondo diviso dalla Guerra fredda, ma in una regione dove il bipolarismo ha regole particolari. Gli Stati Uniti non sono inizialmente il principale patrono: fino agli anni ’50, la Francia è l’alleato più importante (basti pensare al sostegno nel programma nucleare e all’operazione di Suez del 1956). Il passaggio sotto l’ombrello strategico americano avviene dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele dimostra di essere un asset militare formidabile contro i regimi arabi filo-sovietici. Dal 1973 – anno della guerra del Kippur – il legame si fa strutturale: Washington garantisce il rifornimento militare e la protezione diplomatica alle Nazioni Unite, in cambio di una funzione stabilizzatrice a modo suo paradossale: mantenere il caos entro limiti “gestibili” per impedire l’ascesa di un blocco arabo autonomo.

3. L’egemonia come anestesia strategica

Qui si intravede il primo paradosso. La protezione americana ha permesso a Israele di vincere guerre e consolidare la sua esistenza in un contesto ostile, ma ha anche congelato ogni riflessione profonda sulla propria sostenibilità a lungo termine. Come avverte Emmanuel Todd nei suoi studi sulle potenze in declino, l’eccessiva sicurezza fornita dall’egemone produce un “deficit di realtà”: la potenza protetta perde il contatto con le dinamiche di lungo periodo – demografiche, economiche e morali – che determinano la sopravvivenza di una nazione.

4. La degenerazione imperiale

Negli anni ’80 e ’90, Israele diventa non solo alleato, ma proiezione degli Stati Uniti nella regione: supporta le strategie anti-iraniane, partecipa indirettamente alla logica del “divide et impera” nel mondo arabo, beneficia di aiuti militari annui nell’ordine di miliardi di dollari. Ma questa simbiosi ha un costo. L’adozione della postura americana – interventista, moralmente autoassolutoria, impermeabile alla critica internazionale – erode il capitale di legittimità che Israele aveva in parte accumulato come Stato nato da un trauma storico senza precedenti. La memoria dell’Olocausto, che negli anni ’50-’60 aveva fornito una base etica al progetto sionista, si piega progressivamente a giustificazione permanente di politiche che il resto del mondo percepisce come coloniali.

5. Gaza e la logica dell’assedio

La questione di Gaza rappresenta l’esempio più brutale di questa deriva. Ogni ciclo di violenza consolida un meccanismo in cui la forza militare supplisce alla mancanza di strategia politica. L’appoggio incondizionato di Washington agisce qui come un “assicuratore morale”: Israele non teme sanzioni decisive, né un isolamento totale, perché sa di poter contare sul veto americano al Consiglio di Sicurezza. Ma, come dimostrano i casi storici di potenze imperiali in crisi, l’assenza di freni esterni porta alla sovraestensione: il Paese continua a investire in sicurezza tattica mentre perde terreno nella sicurezza strategica, quella che si misura in capacità di convivenza e coesione interna.

6. Il peccato originale

Chiedersi se l’appoggio americano sia stato un vantaggio o una dannazione significa interrogarsi sulla natura stessa dell’indipendenza israeliana. Sul piano militare e tecnologico, il beneficio è innegabile: senza gli Stati Uniti, Israele avrebbe probabilmente affrontato conflitti esistenziali più ravvicinati e devastanti. Sul piano storico e morale, però, la subordinazione a un impero in declino – percepito sempre più come immorale e predatorio – ha trasformato Israele in bersaglio della stessa ostilità globale che colpisce Washington. Qui sta la “anomalia genetica” del progetto sionista nella sua fase attuale: nato per garantire un rifugio ebraico indipendente, il Paese è oggi prigioniero di una dipendenza strategica che ne limita la libertà d’azione e ne corrode l’immagine.

7. Epilogo: il futuro come scelta tragica

Alla vigilia di una possibile occupazione totale di Gaza, Israele si trova davanti a un bivio classico della storia imperiale: continuare a credere che la forza garantisca la sicurezza, o accettare che solo una revisione radicale della propria postura – svincolata dal riflesso americano – possa restituire al Paese una prospettiva di lungo termine. Emmanuel Todd direbbe che il tempo demografico e culturale gioca contro: il Medio Oriente è giovane e in crescita, Israele è demograficamente dinamico ma isolato culturalmente, e il suo patrono americano mostra segni evidenti di declino. In questo senso, l’alleanza con gli Stati Uniti è stata allo stesso tempo l’arma e la maledizione: ha permesso a Israele di vivere più a lungo, ma lo ha reso incapace di immaginare un futuro diverso dal presente permanente della guerra.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



lunedì 11 agosto 2025

Alaska calling

 Alaska calling: al tavolo con Putin e Trump dovremmo esserci noi, non Zelensky


Mercoledì, in Alaska, Donald Trump e Vladimir Putin si incontreranno per discutere della guerra in Ucraina. I nostri media, mai così zelanti nel loro ruolo di megafono della NATO e di badanti dellUnione Europea, continuano a ripetere come un rosario: Deve esserci anche Zelensky!. Per fare cosa? Per recitare il solito copione, chiedere altre armi, altri soldi e altre vite altrui?

Quello che nessuno in Europa vuole ammettere è che la NATO, negli ultimi trentanni, ha avanzato come un bulldozer fino a ridosso della Russia, violando ogni impegno preso e trattando Mosca come un nemico da umiliare e accerchiare. LUE, invece di fare da contrappeso diplomatico, ha scelto di essere la cameriera con il grembiule dellAlleanza Atlantica, servendo guerre e sanzioni come fossero aperitivi.

Intanto, lUcraina non recupererà mai Crimea e Donbass. Quelle terre sono russe per storia, lingua e cultura molto più di quanto siano ucraine. Questa non è un’opinione: è un fatto storico che in Europa si preferisce ignorare, perché riconoscerlo significherebbe ammettere che tutta la retorica fino alla vittoria ucraina” è una menzogna sanguinosa.

E chi paga questa menzogna? Noi.
Non Zelensky, che gira in felpa militare chiedendo miliardi come fossero noccioline. Non Ursula von der Leyen, che firma assegni e pacchetti di sanzioni incurante delle conseguenze sui nostri carrelli della spesa e le nostre bollette. Non i nostri governi, che si riempiono la bocca di solidarietà” mentre svuotano le nostre tasche.

La paghiamo noi:
- Con le tasse, trasformate in missili e carri armati, di cui il governo Meloni non ci dice né il numero né il modello.
- Con i prezzi gonfiati da una grande distribuzione che ha colto la crisi energeticacome scusa perfetta per far cassa.
- Con carburante e riscaldamento diventati beni di lusso, mentre ci ripetono che dobbiamo fare sacrifici per la libertà”.
- Con uninflazione che ci sta rosicchiando i risparmi, mentre i banchieri di Bruxelles si preoccupano più delle frontiere ucraine che dei conti correnti europei.

E poi il colpo di genio: Mario Draghi, nel 2022, chiede se preferiamo la pace o il condizionatore. Una domanda truffaldina, perché nessuno ci ha mai dato la terza opzione: vivere. Vivere del nostro lavoro, con il pieno di diesel pagato a prezzo decente, laria fresca destate e il riscaldamento dinverno.

Perché la verità è questa: a noi dellUcraina nella NATO non importa nulla. Quello che ci importa è che la guerra finisca. Perché non vogliamo continuare a pagare con il nostro tenore di vita una guerra per procura decisa altrove, combattuta da altri e vinta comunque vada solo da chi specula sul sangue.

Perciò, mercoledì, in Alaska, non dovrebbe esserci Zelensky.
Dovremmo esserci noi: la classe media europea, derubata e umiliata. Noi che abbiamo pagato la festa di altri, mentre i padroni della NATO banchettano e lUE sparecchia i piatti. Noi che non vogliamo essere sudditi di Washington, né carne da cannone per Kiev, né spettatori paganti di un disastro che non abbiamo scelto.

E forse, se ci fossimo noi, diremmo una cosa semplice a Zelensky e a Trump: Basta. E poi torneremmo a casa, a fare quello che l’Europa non vuol più lasciarci fare : vivere.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



giovedì 7 agosto 2025

Hiroshima 80 anni dopo

 

Hiroshima 80 anni dopo: la bomba dell’impero


Il 6 agosto 1945, alle ore 8:15 del mattino, l’Enola Gay, un bombardiere B-29 Superfortress statunitense sganciava su Hiroshima la prima bomba atomica della storia, Little Boy. Tre giorni dopo, toccava a Nagasaki. Due crimini senza precedenti, giustificati per decenni come necessariper porre fine alla Seconda guerra mondiale e salvare viteche sarebbero andate perse in caso dinvasione del Giappone. Un racconto rassicurante, utile a lavare le coscienze, ma che regge sempre meno.

Un racconto propagandato anche nelle scuole pubbliche, come ricorda bene il sottoscritto. Una vera e propria circolare a tutti gli insegnanti nella prima metà degli anni 90 : dire agli scolari che gli USA furono costretti a utilizzare la bomba.

Ottantanni dopo, la verità storica impone unaltra lettura: gli Stati Uniti non cercavano tanto la fine della guerra, quanto linizio di unegemonia assoluta. Hiroshima fu il biglietto da visita del nuovo impero americano. Il messaggio era chiaro: gli USA non erano solo la potenza vincitrice della guerra, erano la potenza assoluta. E chiunque avesse avuto mire diverse a cominciare dallUnione Sovietica avrebbe fatto bene a piegarsi.


Hiroshima come atto fondativo dellimpero americano

Alla luce dei documenti oggi accessibili e degli studi storici più seri, risulta evidente che il Giappone fosse già in ginocchio nellestate del 1945. I canali diplomatici per la resa erano aperti. Ma gli Stati Uniti avevano fretta. Non volevano una resa giapponese qualsiasi, volevano una resa totale, incondizionata, spettacolare.

Il bombardamento di Hiroshima non fu solo un atto militare: fu unesibizione. Luso della bomba atomica il cui potere distruttivo era già ben noto, e testato, nel deserto del New Mexico serviva a mostrare al mondo chi comandava. Non un gesto tragico e necessario, ma un atto politico di intimidazione globale. Una forma di diplomazia nucleare scritta col sangue di 140.000 civili, in gran parte donne, bambini e anziani.


La deterrenza non centra

Il mito della deterrenza nasce dopo. Quando la Guerra Fredda prende forma, gli strateghi americani riscrivono la storia: la bomba serviva a prevenire la guerra, a costruire un equilibrio del terroreche avrebbe garantito la pace. Ma nel 1945 non cera equilibrio. Cera una sola superpotenza armata di atomica. LURSS non aveva ancora nulla. Quel che volevano gli americani non era dissuadere, ma dominare.

Parlare oggi di Hiroshima come un male necessario” è una forma di revisionismo imperiale. È la giustificazione morale di un crimine compiuto non per difendersi, ma per imporsi. Gli Stati Uniti hanno usato la bomba perché potevano. E perché volevano inaugurare lera americana con un colpo di teatro terrificante. Il mondo doveva inchinarsi. Chi non lo faceva, avrebbe fatto la fine di Hiroshima.


L’equilibrio fu possibile solo grazie all’URSS

Fu lUnione Sovietica a spezzare lillusione americana dellonnipotenza. Con latomica in mano anche ai sovietici, il mondo entrava davvero nellera della deterrenza. E, per quanto assurdo possa sembrare, fu proprio la paura reciproca della distruzione totale a impedire che l’atomica fosse usata di nuovo. È paradossale, ma lequilibrio nucleare funzionò.

Solo con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dellURSS, gli Stati Uniti tornarono ad agire da potenza senza contrappesi. Da allora non si contano le guerre umanitarie”, le esportazioni di democrazia, gli interventi unilaterali, le basi militari ovunque nel mondo e la continua modernizzazione dellarsenale atomico sono stati il segno tangibile che la lezione di Hiroshima non è stata appresa. Anzi: è diventata dottrina.


Conclusione: Hiroshima ci riguarda ancora

Oggi, a ottantanni di distanza, ricordare Hiroshima significa smascherare la retorica americana della libertà, della pace e della democrazia. Significa dire chiaramente che luso della bomba fu un atto di orrore imperiale, non un gesto disperato. E che solo la corsa agli armamenti dellURSS ha impedito che il mondo finisse sotto il tacco atomico di una sola superpotenza.

Chi oggi continua a guardare agli Stati Uniti come baluardo della civiltà occidentale dovrebbe ricordare Hiroshima. Non per pietà, ma per lucidità.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



Europa: senza fede e senza pace

 Alla vigilia dell’incontro USA - Russia in Alaska, lo spettacolo sconcertante di un’UE che rifiutò il Cristianesimo _______________________...