Israele e il peccato originale dell’egemonia americana
Tra l’illusione di forza e il destino di fragilità
1. Premessa: il nodo Gaza e la crisi di civiltà
Alla vigilia del piano di Benjamin Netanyahu per un’occupazione totale di Gaza, Israele si trova di fronte a una domanda fondamentale: come ha potuto un Paese nato con un’ambizione di redenzione collettiva scivolare in una condizione di isolamento strategico, condannato a vivere in uno stato di assedio politico, morale e demografico? L’interrogativo non riguarda solo la congiuntura bellica: si tratta di comprendere se l’alleanza organica con gli Stati Uniti – tanto stretta da trasformare Israele nella “longa manus” militare di Washington in Medio Oriente – sia stata un moltiplicatore di forza o, al contrario, il suo peccato originale.
2. La nascita di un alleato necessario (1948-1973)
Israele nasce nel 1948 in un mondo diviso dalla Guerra fredda, ma in una regione dove il bipolarismo ha regole particolari. Gli Stati Uniti non sono inizialmente il principale patrono: fino agli anni ’50, la Francia è l’alleato più importante (basti pensare al sostegno nel programma nucleare e all’operazione di Suez del 1956). Il passaggio sotto l’ombrello strategico americano avviene dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele dimostra di essere un asset militare formidabile contro i regimi arabi filo-sovietici. Dal 1973 – anno della guerra del Kippur – il legame si fa strutturale: Washington garantisce il rifornimento militare e la protezione diplomatica alle Nazioni Unite, in cambio di una funzione stabilizzatrice a modo suo paradossale: mantenere il caos entro limiti “gestibili” per impedire l’ascesa di un blocco arabo autonomo.
3. L’egemonia come anestesia strategica
Qui si intravede il primo paradosso. La protezione americana ha permesso a Israele di vincere guerre e consolidare la sua esistenza in un contesto ostile, ma ha anche congelato ogni riflessione profonda sulla propria sostenibilità a lungo termine. Come avverte Emmanuel Todd nei suoi studi sulle potenze in declino, l’eccessiva sicurezza fornita dall’egemone produce un “deficit di realtà”: la potenza protetta perde il contatto con le dinamiche di lungo periodo – demografiche, economiche e morali – che determinano la sopravvivenza di una nazione.
4. La degenerazione imperiale
Negli anni ’80 e ’90, Israele diventa non solo alleato, ma proiezione degli Stati Uniti nella regione: supporta le strategie anti-iraniane, partecipa indirettamente alla logica del “divide et impera” nel mondo arabo, beneficia di aiuti militari annui nell’ordine di miliardi di dollari. Ma questa simbiosi ha un costo. L’adozione della postura americana – interventista, moralmente autoassolutoria, impermeabile alla critica internazionale – erode il capitale di legittimità che Israele aveva in parte accumulato come Stato nato da un trauma storico senza precedenti. La memoria dell’Olocausto, che negli anni ’50-’60 aveva fornito una base etica al progetto sionista, si piega progressivamente a giustificazione permanente di politiche che il resto del mondo percepisce come coloniali.
5. Gaza e la logica dell’assedio
La questione di Gaza rappresenta l’esempio più brutale di questa deriva. Ogni ciclo di violenza consolida un meccanismo in cui la forza militare supplisce alla mancanza di strategia politica. L’appoggio incondizionato di Washington agisce qui come un “assicuratore morale”: Israele non teme sanzioni decisive, né un isolamento totale, perché sa di poter contare sul veto americano al Consiglio di Sicurezza. Ma, come dimostrano i casi storici di potenze imperiali in crisi, l’assenza di freni esterni porta alla sovraestensione: il Paese continua a investire in sicurezza tattica mentre perde terreno nella sicurezza strategica, quella che si misura in capacità di convivenza e coesione interna.
6. Il peccato originale
Chiedersi se l’appoggio americano sia stato un vantaggio o una dannazione significa interrogarsi sulla natura stessa dell’indipendenza israeliana. Sul piano militare e tecnologico, il beneficio è innegabile: senza gli Stati Uniti, Israele avrebbe probabilmente affrontato conflitti esistenziali più ravvicinati e devastanti. Sul piano storico e morale, però, la subordinazione a un impero in declino – percepito sempre più come immorale e predatorio – ha trasformato Israele in bersaglio della stessa ostilità globale che colpisce Washington. Qui sta la “anomalia genetica” del progetto sionista nella sua fase attuale: nato per garantire un rifugio ebraico indipendente, il Paese è oggi prigioniero di una dipendenza strategica che ne limita la libertà d’azione e ne corrode l’immagine.
7. Epilogo: il futuro come scelta tragica
Alla vigilia di una possibile occupazione totale di Gaza, Israele si trova davanti a un bivio classico della storia imperiale: continuare a credere che la forza garantisca la sicurezza, o accettare che solo una revisione radicale della propria postura – svincolata dal riflesso americano – possa restituire al Paese una prospettiva di lungo termine. Emmanuel Todd direbbe che il tempo demografico e culturale gioca contro: il Medio Oriente è giovane e in crescita, Israele è demograficamente dinamico ma isolato culturalmente, e il suo patrono americano mostra segni evidenti di declino. In questo senso, l’alleanza con gli Stati Uniti è stata allo stesso tempo l’arma e la maledizione: ha permesso a Israele di vivere più a lungo, ma lo ha reso incapace di immaginare un futuro diverso dal presente permanente della guerra.
LUCA COSTA
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