lunedì 31 marzo 2025

Magistratura autoreferenziale

 La Magistratura non è Santa: L'Autoreferenzialità Giudiziaria sta Distruggendo la Democrazia

Nel dibattito pubblico si sente spesso ripetere, con una reverenza quasi religiosa, che la magistratura è il pilastro della democrazia, un'istituzione intoccabile, al di sopra di ogni sospetto. Ma è ora di sfatare questo mito: la magistratura non è santa. Certo, esistono magistrati onesti e capaci, ma il sistema giudiziario nel suo complesso è oggi una macchina autoreferenziale, un potere che sfugge al controllo democratico e che, troppo spesso, agisce come un'arma nelle mani di chi vuole eliminare avversari politici scomodi.

Un esempio lampante di questa deriva giudiziaria lo troviamo in Francia. Nel 2017, una banda di magistrati complici dei media mafiosi riuscì a impedire a François Fillon di vincere un'elezione presidenziale che aveva già praticamente in tasca. Ora, con le presidenziali del 2027 all'orizzonte, il colpo grosso si sta preparando contro Marine Le Pen, la strafavorita.

Come si attua questo gioco sporco?

Il meccanismo è semplice: basta sfruttare leggi volutamente mal scritte, ambigue e interpretabili, per costruire accuse e avviare inchieste che hanno il solo obiettivo di eliminare politicamente un candidato. In Francia, come in Italia e in tutta l'UE, ai parlamentari vengono assegnati fondi per pagare collaboratori. Ma chi stabilisce quali collaboratori siano legittimi? La legge assegna una somma a un politico per permettergli di avere un proprio staff di fiducia. In unattività come quella politica, dove la riservatezza e la lealtà sono fondamentali, chi potrebbe mai sindacare sulla scelta di un portaborse?

Eppure, i giudici francesi lo fanno. Si arrogano il diritto di decidere chi è un vero collaboratore e chi no. Questo è esattamente quello che accadde a Fillon, accusato di aver pagato la moglie per un ruolo di assistente parlamentare che, secondo i magistrati, non sarebbe stato svolto. Ma chi, se non il politico stesso, può decidere di chi fidarsi? E quale lavoro possa effettivamente svolgere il proprio collaboratore?

Lo stesso schema si sta applicando oggi a Marine Le Pen. La leader del Rassemblement National è stata accusata di aver utilizzato fondi dell'UE per pagare collaboratori del suo partito in Francia invece che per attività parlamentari a Bruxelles e Strasburgo. Anche in questo caso, il problema è lo stesso: un giudice stabilisce arbitrariamente che una persona non ha svolto il proprio incarico, senza che vi sia una base oggettiva per affermarlo. La strategia è chiara: colpire politicamente un'avversaria temuta con il rischio concreto di una condanna che potrebbe portare alla sua ineleggibilità.

E qui sta il punto centrale: la democrazia si fonda su un principio essenziale, che sembra ormai essere dimenticato in molte capitali europee. Quando si tratta di elezioni, deve essere il popolo a decidere, non i giudici. La magistratura non ha alcuna legittimità per qualificare o squalificare un candidato politico.

Eppure, questo gioco sporco non si limita alla Francia. Anche in Italia e in Romania si sono visti esempi lampanti di una magistratura che si presta a manovre poco trasparenti, servendo interessi che nulla hanno a che fare con la giustizia. In Romania, il caso più clamoroso riguarda Călin Georgescu, un politico che ha osato sfidare l'ordine costituito e le direttive di Bruxelles. Georgescu, noto per le sue posizioni critiche nei confronti dell'UE e delle influenze straniere sulla politica rumena, aveva vinto le elezioni con un programma sovranista e indipendentista. Tuttavia, il suo successo è stato annullato dalla Corte Costituzionale rumena, che ha invalidato la sua vittoria con l'accusa di presunte ingerenze russe, mai dimostrate con prove concrete. Un'accusa creata ad arte per escluderlo dal panorama politico e garantire che il potere rimanesse nelle mani di chi è più gradito alle élite europee.

La sua vicenda ricorda quelle già viste in altri paesi: un politico scomodo viene neutralizzato attraverso strumenti giudiziari, con il risultato di spianare la strada a figure più allineate agli interessi dei poteri forti. In questo modo, la Romania si aggiunge alla lista dei paesi in cui la magistratura diventa uno strumento di eliminazione politica anziché di giustizia.

La conclusione è chiara e amara: la giustizia, nelle mani sbagliate, diventa un'arma di oppressione politica. La magistratura non è più un baluardo della democrazia, ma sta contribuendo alla sua lenta e inesorabile sepoltura. Il popolo deve riprendersi il proprio potere, prima che sia troppo tardi.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



sabato 29 marzo 2025

Ode a Fleximan

Ode a Fleximan


In unItalia dove i delinquenti, ladri, picchiatori, stupratori e clandestini, hanno carta bianca e semaforo verde per fare quello che vogliono, benvenuti nel regno dellanarchia legalizzata. Sì, perché se sei un zingaro che ruba, vieni arrestato cento volte e, manco a dirlo, messo in libertà con un sorriso e un bel tutto a posto. La giustizia, poverina, sembra scomparsa in un angolino, magari proprio in una galera vuota, dove nessuno va mai più, nemmeno se fai il centesimo atto di violenza gratuita contro il cittadino lambda. Eh sì, proprio lui, il cittadino che si sveglia ogni giorno per subire il peso della sua esistenza, senza un briciolo di diritto, bonus o prova, e soprattutto, senza nessuno sconto quando si tratta di… Autovelox.

, signori e signore, avete capito bene. In un mondo dove la criminalità sembra avere il permesso di fare quello che vuole, se tu, cittadino lambda, fai i 52 km/h anziché i 50, DEVI PAGARE. Non è uno scherzo, non è una punizione temporanea. No, no, qui il sistema è implacabile: pochi chilometri di troppo e ti ritrovi a dare una percentuale della tua paghetta a uno Stato che ormai ha bisogno di ogni centesimo per finanziare i suoi eccessivi privilegi.

Ma allora, chi ha il coraggio di difendere lultimo cittadino decente? Chi, in un mare di indifferenza e giustizia per i furfanti, si fa carico di proteggere il lambda che si è trovato nella tragica condizione di aver superato di poco il limite di velocità, senza nemmeno aver messo in pericolo la vita di qualcuno? Ah, la risposta è semplice: Fleximan.

Ebbene sì, Fleximan, leroe del nostro tempo, lultimo baluardo contro linfamia del sistema. E sapete cosa gli riserva il nostro amato Paese? Il PROCESSO, una condanna sicura, senza appello. Perché, vedete, Fleximan ha osato! Ha osato alzare la sua voce contro il simbolo del potere moderno: lautovelox. Perché se non ti succhia il portafoglio con il suo affabile benvenuto nel mondo della trasparenza fiscale, come osiamo dirlo, come può sopravvivere lo Stato?

Fleximan ha preso le difese del cittadino lambda, e questo lo rende colpevole. Ha sfidato larchetipo del buon cittadino che, armato di 80 euro in tasca, si fa impallinare dal velox in ogni angolo della città, senza mai battere ciglio. E cosa otteniamo in cambio? Un processo, perché la vera colpa di Fleximan non è stata la sua azione, ma il fatto che abbia osato mettere in discussione il sacro dogma della macchina statale che deve solo mungere, caricare e bastonare. La sua unica colpa è stata quella di aver turbato il sistema: una leggera intromissione che ci ha fatto vedere per un attimo la verità di un Paese che premia chi infrange le leggi, mentre punisce chi si difende.

Onore a Fleximan, leroe moderno che, come un cavaliere solitario, si è opposto alla macchina delloppressione. Unico baluardo di unItalia in cui il cittadino ormai non è altro che una mucca da mungere, un asino da caricare e bastonare per alimentare il sistema che lo sfrutta e lo annienta. Chissà se, nel suo cammino solitario, Fleximan riuscirà a vedere una goccia di giustizia in un mare di ipocrisia.

Ma tanto, lo sappiamo: un sistema che ha flessibilità solo per i criminali, non può che trattare con rigidità feroce chi si ribella. Buon viaggio, Fleximan.

LUCA COSTA

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Va' dove ti porta il bonifico...

Da Manzoni a Benigni : parlare al popolo, piacere ai potenti (che pagano)

Roberto Benigni e Alessandro Manzoni. Due nomi distanti nel tempo, ma concediamoci un’azzardatissima acrobazia retorica per cercare a unirli con un sottile filo rosso: la capacità di muoversi abilmente nel panorama culturale e politico, sempre con un occhio attento a chi detiene il potere. Se il comico toscano si è recentemente guadagnato la scena (oltre a bel un milione di euro) elogiando lUnione Europea mentre i venti di guerra soffiavano e i governi acceleravano la corsa agli armamenti, Manzoni nel XIX secolo fece più o meno altrettanto, scegliendo con grande attenzione (al portafogli) i suoi bersagli e i suoi silenzi. Ma andiamo con ordine.

Benigni e la Retorica a Pagamento

Roberto Benigni un tempo era il giullare irriverente, comico che non temeva di sbeffeggiare i potenti, capace di emozionare e far riflettere. Ma poi (forse da quella bandiera americana che sventolava liberando campi di concentramento immaginari) qualcosa è cambiato. Negli ultimi anni, lo abbiamo visto sempre più spesso abbracciare cause che fanno comodo allestablishment (Risorgimento, Costituzione), senza il minimo accenno di critica o di spirito sovversivo. Il culmine è arrivato con il suo monologo sullUnione Europea, una celebrazione sfarzosa e pomposa, pagata a peso doro, che suonava più come una pubblicità istituzionale che come un sincero slancio di idealismo.

Mentre Ursula vuole obbligarci ad aumentare le spese militari, mentre la propaganda bellica diventa sempre più sfacciata e i cittadini vengono chiamati a fare nuovi immondi sacrifici, Benigni si presta a unoperazione di maquillage culturale, confezionando un'ode allEuropa che ignora completamente le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, i suoi fallimenti. Un intellettuale che si mette al servizio del potere, che vende la propria voce per un bonifico certamente appetitoso (eccome!) ma assai puzzolente.

Non stupiamoci però, non scandalizziamoci! Non è una novità. Moltissimi artisti nella storia d’Italia, e non solo, si sono prestati al redditizio gioco del suonare la musica dei potenti. Chi? Manzoni, al suo tempo, fece la stessa scelta.

Manzoni e gli Ambienti Filo-francesi

Manzoni non era affatto quel che si potrebbe definire un osservatore neutrale del suo tempo. Cresciuto in un ambiente aristocratico e colto, frequentò circoli intellettuali apertamente filo-francesi, influenzati dal pensiero illuminista e dall’epopea napoleonica. Sua madre, Giulia Beccaria, era legata a salotti progressisti e liberali, e lo stesso Manzoni beneficiò delloccupazione napoleonica in Italia, che gli garantì un’educazione cosmopolita e la possibilità di avvicinarsi alle idee rivoluzionarie.

Non è un caso che, dopo la caduta di Napoleone, Manzoni abbia mantenuto legami con coloro che avevano collaborato con l’occupante francese, evitando accuratamente di criticarlo nei suoi scritti. Se la dominazione spagnola veniva allora rappresentata nei Promessi Sposi come oscura e oppressiva, il periodo napoleonico ben più recente e sanguinoso per lItalia veniva così taciuto. Criticare Napoleone e i suoi sostenitori avrebbe significato alienarsi il favore dei circoli milanesi, pieni di ex funzionari napoleonici. Una borghesia che aveva tratto vantaggi dall’invasione francese, così devastante e insopportabile per il popolo italiano. Manzoni, da abile opportunista, sapeva bene da che parte stare.

La Falsa Narrazione della Dominazione Spagnola

Ne I Promessi Sposi, Manzoni dipinge unepoca buia, governata da una Spagna imperialista e prepotente, dove la Lombardia soffre sotto il giogo di un potere corrotto e inefficiente. Il messaggio è chiaro: la dominazione spagnola ha portato solo miseria e soprusi, canaglie ottuse e inette, e il popolo è stato solo la vittima delle loro nefandezze.

Ma quanto c’è di vero in questa visione? Studi storici recenti, sia spagnoli che italiani, mettono in discussione questa leggenda nera. Certo, nessuno afferma che la Lombardia sotto gli spagnoli fosse un paradiso terrestre, ma la realtà è molto più sfumata di come ce la racconta Manzoni. Gli spagnoli portarono una certa stabilità dopo le devastanti Guerre d’Italia del Cinquecento, difesero il territorio da saccheggi protestanti (che altrove in Europa spazzarono via una percentuale spaventosa di opere d’arte dal valore inestimabile) e contribuirono alla conservazione e alla fioritura del patrimonio artistico e culturale lombardo. Oggi, la densità di siti UNESCO nella regione è tra le più alte al mondo, e molto di ciò che vediamo lo dobbiamo in parte anche alla lungimiranza degli amministratori spagnoli. Amministratori che non erano poi né così sprovveduti, né così barbari, è forse improprio parlare di “dominazione”, studi futuri e inevitabili pubblicazioni sull’argomento porteranno presto alla luce una realtà spagnola ben più umana di quanto traspare dai Promessi Sposi.

Allora perché Manzoni scelse di raccontare una storia tanto negativa? La risposta è più politica che letteraria. Nel XIX secolo, il nazionalismo italiano aveva bisogno di nemici: gli austriaci erano i nemici ereditari più odiati del tempo, ma attaccarli direttamente sarebbe stato, forse, troppo rischioso. Meglio allora spostare lattenzione su un periodo storico abbastanza lontano da evitare ritorsioni dirette, ma abbastanza vicino da alimentare la narrativa della lotta contro loppressione straniera. E chi meglio degli spagnoli, ormai fuori dai giochi, per incarnare il male assoluto?

Perché non Napoleone?

Ma, per chi conosce la storia almeno, c’è un grande assente nel romanzo manzoniano: Napoleone. Se Manzoni avesse voluto davvero dipingere un’epoca di violenza e soprusi, avrebbe avuto gioco facile a scegliere loccupazione napoleonica, con i suoi saccheggi, le sue devastazioni e le sue politiche predatorie nei confronti dellItalia.

Era avvenuto solo dieci anni prima! E quanto la popolazione aveva sofferto, quanti morti, quante deportazioni, quante razzie, quanto dolore, a causa della vergognosa invasione francese!

Ma Napoleone, allepoca in cui Manzoni scriveva, era ancora ben visto dai salotti buoni del Nord Italia, pieni di ex-collaboratori bonapartisti e simpatizzanti del progetto francese. Criticare la Spagna del Seicento era comodo, era facile, criticare la Francia dellOttocento sarebbe stato un suicidio letterario, ed economico…

Il Paragone con Benigni

E qui il parallelo con Benigni diventa inevitabile. Il comico, che un tempo si dilettava a sbertucciare i potenti, oggi si presta volentieri a celebrazioni retoriche che fanno comodo allestablishment. Perché? Perché è più sicuro, perché paga, perché è così che si resta nel giro. Manzoni, a suo modo, fece lo stesso: scelse il bersaglio più facile e funzionale alla narrativa dominante, costruendo unopera che, pur essendo un capitolo fondamentale della nostra storia letteraria è anche un esercizio di prudenza politica.



Conclusione

Manzoni non è stato solo il grande scrittore che ci viene insegnato a scuola. È stato anche un fine stratega della cultura, capace di navigare con astuzia tra le correnti del suo tempo. Il suo romanzo non è solo un capolavoro (questo è indubbio) ma anche un manifesto politico attentamente calibrato per non pestare i piedi sbagliati. E così, da Benigni a Manzoni, il passo è breve: chissenfrega degli spagnoli, a chi importa del popolo dissanguato da Napoleone…va’ dove ti porta il bonifico!

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



giovedì 27 marzo 2025

Quale pace?

Ci vogliono lucidità e coraggio di fronte alla realtà, occorre dire la verità: non ci sarà mai pace senza riconoscere ai russi le dovute garanzie di sicurezza

Nel dibattito occidentale sulla guerra in Ucraina, si parla molto di trattative, di tregua, di sanzioni e di condizioni, ma nessuno va all'essenziale: non ci sarà pace finché la Russia non avrà ottenuto garanzie solide per la propria sicurezza. Questo è il punto centrale che nessun media o politico occidentale osa affrontare. Se davvero vogliamo fermare il conflitto, dobbiamo riconoscere questa realtà e affrontarla con lucidità.

Le discussioni sulle tregue a tempo determinato, sulle sanzioni, sui dettagli diplomatici sono solo un giro a vuoto se non si affronta il problema alla radice. La questione non è l'Ucraina in sé, né un presunto desiderio di espansione della Russia. Putin non vuole conquistare Parigi, né ha mire imperialistiche su tutta l'Europa. Il problema è un altro: da oltre trent'anni, Mosca chiede garanzie di sicurezza che l'Occidente si rifiuta sistematicamente di concedere. Dallo scioglimento del Patto di Varsavia e dell'URSS fino agli accordi di Minsk, ogni promessa di stabilità è stata disattesa, ogni linea rossa ignorata. E oggi, ci si stupisce che la Russia reagisca.

Con il crollo dell'Unione Sovietica nel 1991, la Russia ha adempiuto a tutti gli impegni presi in materia di disarmo. Ha ritirato basi, artiglieria, testate nucleari e soldati dai paesi del Patto di Varsavia, dimostrando la volontà di aprire una nuova fase di cooperazione internazionale. In parallelo, gli Stati Uniti e la NATO si impegnavano - come confermato da molte dichiarazioni e documenti emersi negli ultimi anni - a non espandersi verso est. Ma quegli impegni non sono stati mantenuti.

Già nei primi anni '90, la Russia chiarisce di non voler ostacolare l'indipendenza delle ex repubbliche sovietiche, a patto che vengano garantiti i suoi interessi strategici. Tuttavia, USA e NATO forzano la mano sull'indipendenza di Ucraina, Paesi Baltici e Georgia, senza tener conto delle preoccupazioni russe. All'epoca, la Russia non ha la forza politica, economica e militare per opporsi, ma la questione ucraina si presenta da subito come un nodo delicatissimo. Il confine ucraino dista appena 500 km da Mosca, la Crimea rappresenta un punto nevralgico per il controllo del Mar Nero e la storia lega indissolubilmente Kiev a Mosca.

La NATO, anziché rispettare gli accordi taciti, continua ad assorbire gli ex paesi del Patto di Varsavia, piazzando basi armate con missili nucleari sempre più vicine al territorio russo. Questo processo raggiunge un punto critico nel 2014, quando un colpo di stato filo-americano (e non certo filo-europeo, come dimostra il celebre "Fuck the EU" pronunciato da Victoria Nuland) rovescia il governo ucraino legittimamente eletto. Da quel momento, l'Ucraina si trasforma in un campo di battaglia geopolitico, con il Donbass in fiamme, la popolazione russa prima discriminata e poi perseguitata da Kiev e la Crimea annessa alla Russia.

Nel 2022, Putin ordina l'invasione dell'Ucraina. Perché? La risposta è chiara: Mosca non può permettersi che basi NATO armate di missili atomici siano posizionate a 500 km dalla sua capitale. Anche un bambino di dieci anni lo capirebbe. L'obiettivo della Russia non è annettere l'Ucraina, ma impedirne l'utilizzo come piattaforma militare contro di essa. Questa è una realtà che persino Donald Trump e J.D. Vance hanno riconosciuto. Ma in Europa sembra che non si voglia capire.

Perché? A chi conviene il prolungamento del conflitto? A chi giova una guerra infinita nel cuore dell'Europa? La pace non può essere solo una parola vuota, ma una realtà concreta che passa attraverso il riconoscimento delle legittime esigenze di sicurezza della Russia. Finché questo non avverrà, ogni discorso sulla pace resterà un'illusione.

LUCA COSTA

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lunedì 24 marzo 2025

Coraggio Vittorio

 Coraggio Vittorio, la battaglia per la bellezza non è ancora finita

Io; professore di lingua e cultura italiana all’estero (Francia) da oltre dieci anni, quante lezioni ho dedicato al paesaggio e all’arte, costruendole su interventi e scritti di Vittorio Sgarbi. Oggi, questo grande uomo, che tanto ha dato al nostro paese, attraversa un momento di difficoltà. A lui vanno il nostro pensiero e le nostre preghiere

Quando i miei studenti francesi mi chiedono chi sia Vittorio Sgarbi, la mia risposta è sempre la stessa. È un uomo che ha dedicato la sua intera esistenza a ricordare agli italiani chi sono, a risvegliarli dal torpore dell’ignoranza, a scuoterli con parole di fuoco, con la passione di chi non accetta che il più grande patrimonio artistico e paesaggistico del mondo sia trattato ormai come un dettaglio, un peso, un ostacolo allo scempio della modernità green.

Questuomo è Vittorio Sgarbi

Per decenni, con mostre, libri, conferenze, trasmissioni televisive, Vittorio ha portato la bellezza là dove rischiava di essere dimenticata. Nelle nostre case, nelle nostre menti. Ha raccontato al grande pubblico i capolavori nascosti nei piccoli musei di provincia, nelle pievi sperdute (avete presente Elva?), nelle città d’arte cosiddette “minori” solo perché ignorate dagli eserciti del selfie del turismo di massa. Ha ricordato agli italiani l’esistenza di innumerevoli diamanti che costellano la loro terra, a sentirli propri, a difenderli con orgoglio.

Ma la sua battaglia più grande non è stata solo per la pittura, la scultura, larchitettura. No, Vittorio Sgarbi si è battuto per lopera darte suprema, quella che nessun artista potrà mai eguagliare: il paesaggio italiano.

Quel paesaggio che la nostra Costituzione tutela con larticolo 9, ma che la politica tradisce ogni giorno. Sgarbi ha sempre combattuto (e ancora combatte) contro la violenza e la speculazione, contro gli ecomostri che dal secondo dopoguerra hanno cementificato le nostre coste e le nostre periferie. E quando il nuovo millennio ha portato con sé una devastazione ancora peggiore, quella dell’eolico, lui non ha taciuto. Ha gridato, ha denunciato, ha maledetto la più grande vergogna d’Italia: le pale eoliche che sfigurano il nostro paesaggio, che lo umiliano.

Le ha chiamate immonde, orrende, mafiose. E con ragione. Giganteschi ventilatori che violentano le colline, le valli, i panorami che hanno incantato i pittori del Rinascimento, i viaggiatori del Grand Tour, i poeti di ogni epoca. Ha visto in esse non progresso bensì distruzione, non energia pulita, ma la sporca mano dellaffarismo speculativo senza scrupoli. E, come sempre, Vittorio ha lottato. Spesso da solo. Spesso contro tutto e tutti.

C’è un altro insegnamento che Vittorio Sgarbi ci ha lasciato, una lezione che oggi molti preferiscono ignorare: Croce aveva ragione, gli italiani non possono non dirsi cristiani. Non per un dogma imposto ma perché tutta la bellezza del nostro paese è un grande slancio spirituale, nato in nome del cristianesimo. Le nostre cattedrali, i nostri affreschi, le nostre sculture, le piazze e le città che il mondo intero ci invidia sono il frutto di unispirazione, di una tensione verso il divino che ha dato forma allItalia stessa. Rifiutare questa eredità, rinnegarla, occultarla, significa non comprendere la radice più profonda della nostra civiltà. Vittorio lo ha sempre saputo e con la sua voce ha ricordato a tutti che larte italiana è prima di tutto un atto di fede, una testimonianza incisa nella pietra e nel colore, nel marmo e nelloro.

Una dichiarazione d’amore per il cristianesimo e per la bellezza creata dalla Chiesa cattolica nel corso dei secoli ben più consistente (ed efficace) dei brodini politicamente corretti proposti da vescovi e cardinali stanchi, preoccupati ormai solo di non essere divisivi e di piacere ai salotti buoni (della sinistra ovviamente).

Oggi, mentre la malattia e la stanchezza sembrano piegarlo, noi italiani dobbiamo dirgli grazie. Dobbiamo sostenerlo, aiutarlo.

Grazie, Vittorio

Grazie per aver amato lItalia, amata ben più di coloro che avevano il compito e il potere di governarla e di difenderla, politici che non sono che un gregge di capre (capre!) che non sanno nulla di nulla del nostro paese. Grazie Vittorio per averci mostrato ciò che ci appartiene e che spesso non sappiamo nemmeno di possedere. Grazie per averci ricordato chi siamo, per averci ricordato il privilegio e la responsabilità di essere italiani.

E se oggi ti senti stanco, sappi che il tuo grido non è stato vano. La tua voce è ancora qui, nelle opere che hai presentato e salvato, nei paesaggi che hai difeso, nelle coscienze e nei cuori che hai risvegliato con le tue mostre in tutta Italia.

La bellezza non può e non deve morire. L’Italia deve rinascere, e chi la difende con la tua forza, Vittorio, ne sarà parte per sempre.

LUCA COSTA

PONTE ARCOBALENO: LUCA COSTA: una voce del pensiero alternativo



Israele contro i Cristiani

 Cisgiordania: Israele contro i cristiani Nel cuore della Cisgiordania, a pochi chilometri da Ramallah, sorge Taybeh, l’ultimo villaggio ...